Africa/Afriche. I diversi sguardi sul continente nell’arte contemporanea.

Città artisticamente vivace anche al di fuori della cadenza biennale della sua Mostra internazionale, Venezia ha attirato la nostra attenzione con una mostra inaugurata recentemente al Museo Guggenheim. La mostra citata trova poi una sorta di eco indiretta nella personale dedicata a Massimiliano Pelletti al museo MARCA di Catanzaro, due esposizioni quindi in cui l’arte “etnica”, africana in primo luogo, ha un ruolo di indiscusso protagonista. Partiamo  con la prima delle due mostre selezionate come pretesto per questo scritto in cui ripercorriamo, ovviamente in modo sommario, dati gli spazi,  le tracce dell’arte africana in quella italiana. Dal titolo Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim,  il museo veneziano presenta una selezione di opere appartenute alla maecenate e da lei inserite di fianco a capolavori di arte europea della sua collezione. È infatti quasi superfluo ricordare la grande importanza che l’arte africana ha ricoperto  per la avanguardie artistiche del secolo scorso. Nell’introduzione al volume di K. E. Maison dal titolo Arte nata dall’arte, Michael Airton ricordava che anche il rivoluzionario approccio cubista aveva una chiara radice nella produzione artistica precedente. Si trattava però di una ispirazione diversa, tale da spiegarne l’aspetto decisamente innovativo. Volendo parlare di arte africana, non possiamo quindi non partire da un accostamento, ripresentato in mostra, tra un ritratto di Picasso e una maschera a spalla D’mba proveniente dalla Guinea.

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Foto dell’allestimento di Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim © Collezione Peggy Guggenheim. Foto Matteo De Fina

Sebbene la raccolta di oggetti di provenienza extraeuropea di Peggy Guggenheim sia legata ad acquisti del 1959, la collezionista aveva ben presente il ruolo di precedente stilistico rappresentato da questa forma d’arte a cui il pittore si era rifatto. Poco importava, poi, se alcune opere africane di cui si è riuscito ad individuare l’autore fossero addirittura successive alle opere di cui si riteneva fossero state ispiratrici. L’arte tradizionale, in questo caso africana, e quella a funzione sacra, di qualunque cultura si parli, hanno infatti nel conservatorismo uno dei tratti distintivi. È quindi indubbiamente giusto parlare di allestimenti astorici , come fatto dai curatori della mostra in  riferimento agli accostamenti di Peggy Guggenheim, ma  non possiamo non riconoscerne la suggestione.

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Foto dell’allestimento di Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim © Collezione Peggy Guggenheim. Foto Matteo De Fina

Spostandoci apparentemente lontano da Venezia, tratti marcati del volto compaiono nella scultura a firma di Bruno Orfei. Il volto femminile è privo di data ma confronti stilistici con opere della sua produzione hanno portato ad inserirlo alla fine degli anni ’40 o al decennio successivo. Lo stile del futuro docente dell’Accademia di Belle Arti di Perugia risentiva infatti degli influssi post cubisti del suo Maestro, Leoncillo Leonardi, così da riproporne i tratti più evidenti. Dopo l’innovazione delle avanguardie, tali immagini erano ormai entrati nel repertorio di fonti e lo rimasero a lungo. Se geograficamente lontani da Venezia e ancor più dalla Parigi di Picasso, comune è la citazione di arte africana nella scia di un movimento avanguardistico che ha lasciato tracce, come detto, pure in Italia.

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Bruno Orfei, Volto di donna, s.d., ma fine anni ’40.

Collezione privata. Foto Gianluca Benedetti.

Nei casi appena ricordati, la citazione dell’arte africana verteva soprattutto, se non esclusivamente, sulle forme trascurando se non stravolgendo l’uso originario di suppellettili sacre ridotte a meri oggetti d’arte se non di arredo. Una sorte comune, questa, a molti se non a tutti gli oggetti di provenienza esotica nel corso della storia della produzione artistica. E quando diciamo esotico non necessariamente ci riferiamo a mondi lontani ma semplicemente diversi. Se volessimo rivolgere lo sguardo indietro potremmo partire già dalle primissime forme di citazione artistica e di collezionismo. Stiamo pensando alla moda dei necorinthia, ovvero i vasi di produzione corinzia rinvenuti in occasione della ricostruzione della città di Corinto come colonia romana. La grande mole di vasellame di uso funerario rinvenuto in quella circostanza dette vita ad una moda, appunto, in cui la funzione originaria dell’oggetto era completamente trascurata.

A questo primo esempio di citazione formale di un’arte precedente ne potremmo aggiungere degli altri ma preferiamo passare ai Minareti di Yvonne Ekman. La coppia di sculture sembra citare espressamente, nel craquelé delle superfici e nelle escrescenze che le animano, le architetture delle moschee in terra cruda tipiche del Mali. Anche qui, un richiamo esclusivamente formale, come mero rimando ad un bagaglio di immagini ampio, se non globale. Risalenti alla parte centrale degli anni ’80 del secolo scorso, le opere sono state prodotte con una sorta di colombino e non a lastra, come potrebbe apparire ad una prima analisi. Queste sono state “un esercizio di precisione”, come ci dice l’artista stessa nel commentare la sua realizzazione. Terra rossa e smalto opaco in realizzazioni che, apparendo troppo severe, sono state poi arricchite dalle “bolle” che ne animano le superfici. Si tratta di un primo esperimento verso una certa semplificazione geometrizzante che anticipa di circa vent’anni gli esiti ben più recenti della ricerca dell’artista. Quale che sia il soggetto trattato, Yvonne Ekman ha sempre mostrato, nel pianificare e realizzare le sue opere, un rigore legato alla sua esperienza di musica classica.

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Yvonne Ekman, Minareti, s.d, ma metà anni ’80.

Collezione privata. Foto Gianluca Benedetti.

Questi esempi non devono però farci pensare ad una mancata rilettura dell’arte africana tradizionale come una manifestazione della ritualità dei momenti cruciali della vita di ciascuno. E non è un caso che la parola ritualità compaia anche nelle righe esplicative che Mirco Denicolò aggiunge ad alcuni dei suoi Teatrini: vere e proprie mise en scene di oggetti anche eterogenei tra di loro, i suoi assemblaggi non ripropongono gli allestimenti astorici a cui si accennava sopra, ma affiancano semmai tra di loro elementi totemici, simbolici. Ecco quindi una maschera dai tratti estremamente semplificati, un uovo, o un pezzo degli scacchi, un re. Superfluo, crediamo, ricordare il significato di rinascita attribuito all’uovo già dall’epoca antica, se è vero che l’uso di tale forma ricorre già nei culti misterici pitagorici. Più evidente il richiamo alla regalità, e quindi al potere e ai rapporti di forza in genere, nel pezzo degli scacchi. E la cultura africana – sollecitata da una visita dell’artista in Belgio e dalla conseguente riflessione sui portati della sua politica coloniale in Africa – è pretesto per una riflessione sui momenti cruciali e sui riti di passaggio che ciascuno di noi deve superare. Tornando alle parole dell’artista stesso, vediamo citati in dettaglio “il sesso, la guerra, il parto, il sacro, la morte, il dolore, tutto quello che sta al limite dell’esistenza”. Ecco che la maschera – africana, ma non solo, se l’artista intitola le sue righe introduttive all’opera La necessità di inventare Pulcinella – diventa oggetto primordiale con cui l’Uomo affronta i momenti cruciali della vita, mezzo di sdoppiamento del sé, una sorta di corazza.

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Mirco Denicolò, Teatrino capovolto, 2018. Dimensioni complessive 60x60x20

Courtesy l’artista.

Stupisce trovare una certa vicinanza con la ricerca, del tutto indipendente, portata avanti da Sabine Pagliarulo. Frutto delle sue riflessioni la piccola serie di Amuleti: collane sculture che affiancano object trouvé e forme in argilla realizzate dall’artista. Ma la centralità dell’elemento naturale nel percorso che Pagliarulo porta avanti da anni non viene meno neppure qui. Quando parliamo di object trouvé non dobbiamo pensare all’uso fattone a partire dal dadaismo in poi, non è l’oggetto prodotto in serie e riletto e interpretato dall’artista che ne fa un oggetto d’arte. È al contrario un elemento tratto dal mondo naturale e che alla natura stessa rimanda. Non è un caso poi che gli inserti in argilla plasmati dall’artista ripropongano, in scala più piccola, i Pulse tipici della sua ricerca: impulso vitale, forza generativa che spinge dall’interno per arrivare alla luce. Elementi ibridi tra il vegetale e l’animale, queste forme vagamente circolari e che richiamano l’uovo già visto in Denicolò, sono qui alternate a rami o cormi di animale. Insistiamo poi sulla decisione consapevole dell’artista, innanzitutto nella scelta dell’argilla e quindi nell’assenza di coloranti chimici che alterino il colore naturale delle terre come sottolineatura ulteriore del messaggio demandato all’opera. Il richiamo al mondo africano non è legato solo all’idea della primordialità della vita e dell’oggetto apotropaico ma è citato espressamente dall’artista che, nel presentare tali sculture, li affianca ad una maschera africana. Non parliamo, qui, di un richiamo esclusivamente formale, ma di un rimando all’esperienza personale che lega l’artista e la sua famiglia a questa terra e ai ripetuti viaggi compiuti lì.

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Sabine Pagliarulo, Amuleto, 2019. Courtesy dell’artista, dimensioni: 30X36X10 cm

Volti stilizzati, ma non solo. Una direzione opposta sembrano prendere i volti che sono ormai diventati il tratto distintivo della ricerca di Tiziana Rivoni. Da uno spunto di diversi anni fa, il volto dai marcati tratti individuali, ha seguito percorsi capaci di raccogliere stimoli diversi. L’origine, per dichiarata ammissione dell’artista, è stata la rilettura del mito siciliano della  ragazza che, non potendo conservare l’intero corpo del uomo amato, ne recide la testa. Dalla tradizione letteraria del Decameron boccaccesco, le teste di moro che caratterizzano la ceramica popolare dell’isola, prototipo ripetuto mille e mille volte fino a perdere tratti di un volto specifico o, se volessimo utilizzare la terminologia delle critica letteraria, non più un personaggio a tutto tondo ma un tipo, ovvero una generalizzazione come il vecchio avaro, la ragazza sciocca e così via. A riavvolgere indietro i fili della storia, i volti di Tiziana Rivoni si caratterizzano invece per una marcata individualità che non perde d’occhio neppure la grande produzione  artistica dei Balck kingdoms: a corredo delle sue realizzazioni, infatti, la testa in bronzo di produzione nigeriana del XII secolo. In una ricerca in cui stimoli visivi e culturali si stratificano, il volto/ vaso diventa canopo, e poi, nella ricerca più recente, un viso da marcati tratti ritrattistici. In un’indagine che sembra voler individuare gli elementi caratterizzanti di un’identità, etnica o individuale che sia, a nostro modo di vedere sono cruciali quei volti di neri in cui assente è invece è il tratto totalizzante del colore della pelle. Lo ripetiamo, ha ragione di definirsi nero un volto in cui tale colore sia assente?

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Tiziana Rivoni, 34, 2016, 28 x 20 x 18 cm. Courtesy l’artista.

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Man Ray, Noire et blanche, 1926.

L’accostamento visivo delle realizzazioni contemporanee con opere di arte africana ci rimandano immediatamente gli scatti di Man Ray, da Noire et blanche del 1926, fino ad Ady et sculpture africaine, del 1937 e, in questo continuo altalenare tra opere create ad un secolo di distanza le une dalle altre, alla mostra personale dedicata a Massimiliano Pelletti attualmente in corso al MARCA, il Museo delle Arti di Catanzaro. Il titolo Looking Forward to the Past racchiude in sé la intima contraddizione di un percorso che guarda alle radici dell’arte contemporanea e ne studia le diverse, possibili origini. Ampliando il concetto di classico, Pelletti guarda all’arte africana come una possibile alternativa o, meglio, un’integrazione alla cultura iconografica classica. Ecco che la ieraticità delle sculture rituali dei diversi territori africani presi dettagliatamente in considerazione dell’artista gli permettono di parlare di arte del Gabon o della Costa d’Avorio e non, genericamente, di arte Africana, e di farne risaltare, allo stesso tempo, il portato universale così come caratteristico di un arte definita appunto classica. Riconoscibile poi il suo ricorso, del tutto distintivo, a materiali eterodossi e inediti per la scultura: non più e non solo il marmo statuario della tradizione nativa Pietrasanta, ma diversi supporti di cui si cercano di esaltare le caratteristiche naturali insite a scopo espressivo. A commento di una mostra e di un percorso, che meriterebbero ben altro spazio, ci limitiamo a richiamare l’attenzione su una sola opera che sembra racchiudere in sé il binomio tra arte classica e arte africana come possibili fonti di ispirazione e, riunite, in una stessa opera, lo spostamento dell’ottica realizzato dalla avanguardie di inizio ‘900 di cui parlava Michael Airton citato all’inizio di questo scritto. Ci riferiamo ad Unnamed, in cui un volto dagli evidenti tratti classici nella trattazione della capigliatura, veste una maschera africana. Nonostante il contrasto cromatico netto tra il bianco uniforme del marmo statuario e il nero screziato della maschera sovrapposta, il concetto di moderno, per Pelletti e per gli altri artisti citati, sta anche in questo, nel sapere inserire nell’arte di oggi, e forse non solo in questa, uno sguardo rivolto anche all’altrove in un ottica non più strettamente etnocentrica ma che guardi alle radici universali che ci accomunano. O, riportando il titolo della mostra di arte africana organizzata in Spagna nel 2009 e cercando di renderne il senso, Son distintos no son distintos, ovvero i suoi tratti distintivi non sono distintivi, ma universali.

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Massimiliano Pelletti, African Hermes 2019, 135 x 50 x 75 cm. Courtesy Galleria Barbara Paci, Pietrasanta, e l’artista. Foto Nicola Gnesi

Testo di Domenico Iaracà


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