In attesa di poter ammirare personalmente le opere di Mattia Vernocchi esposte al Palazzo del Monte di Pietà di Forlì, ci piace dare comunicazione di questa sua mostra e ricordarne l’inizio, il 7 dicembre prossimo, alle ore 11,00.
Sarà un’occasione per apprezzare di nuovo i riconoscibilissimi assemblaggi su supporti metallici, di cui un esemplare è stato recentemente inserito nel percorso del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza.
Una chiave di lettura dei suoi intenti ci è fornita dalle parole del curatore della mostra forlivese Alessandro Giovanardi che riportiamo qui di seguito.
“Più della pittura, più ancora della scultura la ceramica coinvolge le potenzialità conoscitive del corpo. Plasmare è pensare con i polpastrelli, indagare con l’affondo delle dita nell’argilla, contemplare con le braccia che sostengono e orchestrano un microcosmo. Scolpire è imporre un’idea a colpi e a finissime levigature, plasmare è suscitare la risposta della terra e dell’acqua, dell’aria e del fuoco. Ma questo confronto corpo a corpo per Mattia Vernocchi è stigmatizzato da un concetto, è segnato da una constatazione di un presente scabro e industriale che rende più astratto e concettuale ciò che è antico, se non arcaico, primordiale, se non originario. L’imagery dell’artista è, difatti, crocifissa a reti intessute di ferro e profilati di metallo: al suo pensare è imposto di dimorare all’incrocio tra la poesia senza mediazioni dell’atto creativo e il reticolo avvincente di ciò che è fatto per l’uso e presto abbandonato. Quasi un agone tra alchimia e industria, magia e stregoneria. Tuttavia il vincolo crudo dell’oggi che potrebbe frustrare uno sguardo ulteriore, uno sbirciare al cielo sopra le macerie, è trasformato in occasione lirica. L’artista è insieme ferito e sostenuto dal tempo che cerca di superare e dalle sue forme più comuni: gli oggetti non sono semplicemente dati, o raccolti, ma ripensati, risignificati. Vernocchi ricostruisce letti abbandonati, popola gabbie nude, edifica ruvide nicchie che assomigliano a fogli accartocciati, trasforma in canto i residui, li solleva in una dimensione di sogno lucido, per gettare uno sguardo oltre la desolazione in cui ogni cosa è sospesa senza più senso. La potenza delle mani, la pazienza della fiamma non si contrappongono più al limite feroce dello scarto, ma lo riassorbono in sé, lo trasfigurano; e gli spazi domestici si dilatano, s’impongono come fossili di ere mitologiche, di racconti torrenziali. Fiumi di lava, rivoli di magma raffreddati avvolgono ciò che è seriale e perduto, rammentano la terra umida dell’inizio, la potenza minerale, la ricchezza dell’organico. Per questo nella terra nuda o nelle complesse architetture di Vernocchi è ancora possibile immaginare città dimenticate, reperti onirici di civiltà sepolte, archeologie industriali del sogno.”
Testo a cura di Domenico Iaracà
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