intervista a Fausto Salvi

Ciao Fausto, vedo che la tua formazione tecnica ed artistica parte da Brescia e passa in parte da Faenza, quali ricordi hai di quegli anni e quanto l’ambiente di Faenza e l’istituto Ballardini ha contribuito nella tua formazione…

Ciao Evandro, 

con questa domanda mi rimandi al periodo faentino che ricordo con molto piacere. 

Più che a Brescia, dove ho frequentato un triennio con specializzazione in formatura e stucchi e intarsio del legno presso la Scuola d’Arte del Garda ( ora chiusa), la mia formazione in effetti è molto legata al periodo trascorso a Faenza, inizialmente da studente per poi mutare in ceramista a tutti gli effetti, parecchi anni dopo la precedente formazione bresciana.

Sono arrivato in Romagna alla fine del 1988 con l’idea di fermarmi per un anno scolastico ( per poi partire per un viaggio in Africa ) durante il quale volevo approfondire la mia curiosità circa il materiale argilloso e le sue declinazioni, di cui avevo sentito parlare qualche mese prima grazie ad un incontro fortuito. 

Fino a quel momento non avevo idea di cosa fosse la ceramica e nemmeno avevo la più vaga informazione sulle sfaccettature di quel lavoro. Va da sé che me ne innamorai immediatamente e mi venne subito piuttosto naturale utilizzare l’argilla. 

Cosa che mi rese molto sorpreso e felice.

Il primo anno di formazione fu molto rivelatore e mi convinse ad iscrivermi all’Istituto Ballardini per frequentare altri due anni di specializzazione Arte Maiolica.

Da quel momento in poi la strada mi si aprì piuttosto chiaramente e, fin dagli esordi studenteschi, cominciai a lavorare in casa e in qualsiasi spazio, minuscolo che fosse, che mi permettesse di concretizzare le idee che sgorgavano come un fiume in piena. 

Una grandissima parte di merito, per quanto riguarda quel fondamentale momento di continuità, è da attribuire all’ambiente eterogeneo e internazionale che in quegli anni era ad un livello molto più che interessante e sorprendente, considerato la dimensione della cittadina.

C’erano studenti provenienti da moltissimi paesi del mondo che venivano per frequentare i corsi di specializzazione dell’Istituto Ballardini, corsi biennali che a quell’epoca erano molto interessanti e stimolanti.

Ancora oggi non credo ci siano scuole italiane con una proposta così variegata come era quella del Ballardini di quegli anni.

Quindi da una realtà come era la mia fino a quel momento, mi trovai catapultato in una quotidianità internazionale ed eccitante al punto che solo poche settimane dopo il mio arrivo a Faenza la mia città di origine era già molto lontana nei miei pensieri.

Anche il temperamento emiliano-romagnolo mi colpi molto. La simpatia e amichevole apertura di cui ero involontario oggetto, mi fece provare una sensazione di accoglienza che all’età di 21-22 anni mi colpì molto.

Per completezza d’informazione in Africa non ci sono mai arrivato e quello che doveva essere una sorta di anno sabbatico si prolungò per dieci anni, fino al 1998, anno in cui mi traferii dapprima per qualche tempo a Buenos Aires, per poi tornare a Brescia e poi Milano e Brescia ancora. Queste sono le città dove ho allestito il mio studio.

So che spiegare un linguaggio non è sempre semplice ed immediato ma ci parleresti della tua ricerca in campo artistico, o come ti piacerebbe raccontarla ad una persona che non ti conosce, in particolare ci sono degli artisti che per te sono stati fonti di ispirazione o di esempio?

La scoperta e il percorso attraverso questo nuovo mondo partì dalle radici tradizionali del fare maiolica.

Il primo anno fu dedicato a tempo pieno alla conoscenza delle regole pratiche del ceramista: le tecniche tradizionali del tornio, del colombino, della lastra, dell’ingobbio, della smaltatura (senza spillature!) degli ossidi e delle materie prime, del decoro sopra smalto, dello spolvero, dell’imitazione cinquecentesca, delle campiture di colore e delle sfumature del disegno, delle invetriature, del lucido e del matt, della tecnologia applicata alle cotture, dei coni pirometrici, delle varie tipologie di cottura, dei forni a gas, elettrici, a legna, di carta, di mattoni, di fibra ceramica, e delle più fantasiose e variegate esperienze del fare ceramica.

Un mondo per me totalmente nuovo e senza limiti, da scoprire, ricercare e nel quale immergermi.

Dall’interpretazione dei disegni tradizionali e delle forme in terracotta che avevo approfondito, che fu l’inizio del mio percorso personale, ho sviscerato la tecnica della decorazione dipingendo un numero imprecisato di superfici tridimensionali. Piatti, orci, vasi, ciotole, piastrelle o qualsiasi supporto in terracotta che fosse utile per essere letteralmente ricoperto di segni e disegni e colori dati a pennello su smalto bianco. 

Per un paio d’anni, con il gruppo di lavori “Giochi di Giulia”, congiungendo forme precolombiane e decoro rinascimentale, profili orientali e graffiti arcaici, ottenni risultati ai miei occhi entusiasmanti. 

La mostra di fine biennio al Ballardini portò con sé l’inizio della ricerca grafico/pittorica su smalto, svincolandomi dai legami con la tradizione pittorica tradizionale. Padroneggiando ormai la punta del pennello, le tematiche furono fin da subito orientate agli eventi quotidiani della cronaca o della politica, alle problematiche ecologiche o legate a conflitti e derive complesse e violente tipiche del genere umano.

L’idea che attraverso un oggetto in maiolica dipinta ci si potesse introdurre nella vita delle persone che lo posseggono, con un messaggio di protesta, di rabbia o di denuncia mi divertiva e mi intrigava molto.

Il vaso, il centrotavola o il sottopiatto, nel loro essere “innocuamente decorativi”, diventavano Cavallo di Troia per accedere alle persone quando nella propria casa, “a difese abbassate”, vengono sorprese nello scoprire che una rassicurante ceramica dipinta può portare con sé messaggi scomodamente contemporanei e assolutamente attuali. 

Parecchi anni dopo ho sviluppato la “sensibilità tridimensionale”, variando di  molto quella mia iniziale vena bidimensionalmente artistica ( seppur il disegno bidimensionale su supporto a tuttotondo acquista una sorta di quarta dimensione )  per dedicarmi soprattutto ad altro tipo di produzione artistica, le cui tematiche peraltro rimangono pressoché invariate.

Jun Kaneko e Franz Stahler furono le due personalità che mi spinsero a continuare a sognare ciò che avrei voluto essere: da un lato un artista decisamente forte ed incisivo come Kaneko, capace di realizzare incredibili opere monumentali, tali da necessitare di un trasporto eccezionale su camion autoarticolati.

Dall’altro Stahler, una gentile figura errante (che mi affascinò moltissimo avendolo conosciuto nei miei anni “di bottega”) che nel suo operare mi illuminò sulla possibilità di viaggiare per il mondo grazie al proprio lavoro artistico.

Tra gli artisti che mi ispirano ci sono soprattutto musicisti che, come amo fare nel mio lavoro, non badano alla “riconoscibilità” della loro produzione ma si abbandonano alla propria natura eclettica e volubile.

Il tuo rapporto con il materiale espressivo prescelto è stato sempre un rapporto diretto e immediato o a volte ti ha portato a fare delle scelte che hanno implicato dei compromessi?

Diretto e immediato!

Una febbrile attività ovviamente porta a fare alcuni errori, trascinati come si è dalla fame di conoscenza e dall’impazienza dei risultati. Errori di cui però non mi pento.

L’argilla dona e prende, richiede molti sforzi sia fisici che mentali e dona molto, moltissimo, fisicamente ma soprattutto mentalmente.

La mia traiettoria di lavoro, di ricerca e di aspirazione mi hanno fin da subito precluso (in modo assolutamente volontario, s’intende) la possibilità di riproduzione di oggetti. L’idea stessa di ri-produrre mi ha fin da subito annoiato e non ne ho mai provato la necessità. 

Della scelta riproduttiva di ceramiche mi ha sempre preoccupato il consumo di energia, di materiali e l’impatto che ciò produce sull’ambiente. E questo per quanto mi riguarda, e per quanto riguarda l’ambiente, non e’ per nulla secondario.

A proposito di compromessi devo dire che ho sempre cercato di evitare di dare spazio a qualsiasi tipo di operazione che non mi trovasse totalmente pacifico. Scelgo la strada artistica del lavoro, dove la parte predominante rimane comunque il messaggio intrinseco dell’opera, piuttosto che indulgere nei numeri di produzione e nei tempi che questo richiede.

In trent’anni di lavoro ormai (sembra ieri, anche se non è vero) credo di aver pianificato la riproduzione di una sola piccola opera, tramite stampo in gesso, che peraltro suggerirei a tutti di avere a portata di mano: HAI LOVE YOU! 

Un cuore rosso spinoso, con scatola di legno e nido di edera in plastica simil-vero, che dal 1992 ad ora mi trova d’accordo su quello specifico, incisivo significato.

Parte del tuo percorso è stato dedicato anche all’insegnamento, pensi che per un artista sia importante avere un’esperienza dedita anche all’insegnamento o deve essere più concentrato nella propria ricerca poetica?

Di fronte a questa domanda mi trovo un po’ in difficoltà; ho sempre creduto che per essere sicuri di mantenere i pensieri liberi da limitazioni e/o contaminazioni, per avere il tempo necessario che la ricerca artistica necessita, per dare spessore e senso al lavoro dell’essere artisti, si dovesse rischiare il tutto-per-tutto. 

E’ vero anche che affidando le proprie finanze alle uniche entrate intermittenti/inaffidabili/altalenanti date dalla vendita di opere uniche, il rischio è piuttosto elevato. E di questo potrei redigere un piccolo trattato!

Mai come in questi anni la differenza tra “fare l’artista” o “essere artista” sta nelle scelte di vita, nella consapevolezza del proprio impegno e nelle rinunce che questo comporta.

Ho spesso trovato l’insegnamento una scelta di comodo per molte persone che lavoro nel settore artistico. Una gestione delle proprie risorse e del proprio tempo piuttosto calcolata. Ci sono insegnanti che non dovrebbero rivestire il ruolo che hanno, che non è solo quello di tramettere informazioni e nozioni. La figura dell’insegnante dovrebbe trascendere da questo e offrirsi come guida affidabile che conduca gli alunni attraverso un terreno nuovo. Con dedizione, devozione e umiltà.

A me, come credo alla maggior parte di noi purtroppo, è capitato di avere anche un solo pessimo insegnante che però ha contribuito in modo decisivo alla scomparsa di una passione ancora non sufficientemente solida, come all’infelice cambio di traiettoria di una ricerca importante. Sono rischi che mi hanno dissuaso dall’idea di poter insegnare, visto la portata enorme che un potenziale errore può generare. 

L’insegnamento dovrebbe avere una considerazione molto maggiore di quella che gli viene attribuita, selezionando meticolosamente chi deve farne parte.

Il mio temperamento e la mia difficoltà nel mediare una cosi forte spinta al lavoro e alla libertà di movimento e di gestione del tempo mi ha precluso così gli aspetti interessanti della pratica dell’insegnamento, come la possibilità di scoprire e approfondire, insieme e grazie agli allievi, strade che altrimenti non sarebbero apparse come percorribili. 

Nel tuo curriculum vanti molti riconoscimenti importanti ed esposizioni in luoghi prestigiosi, quale è il tuo rapporto con il mercato dell’arte, in particolare se dovessi dare dei consigli ad un giovane artista che si avvicina a questo panorama, cosa gli diresti?

Uno dei miei migliori insegnanti di Faenza mi disse che, essendoci due tipologie di artisti – concettuale e operaia (io mi colloco nella seconda) – le strade che queste due tipologie avrebbero intrapreso sarebbero state necessariamente distinte. In parte devo dire che è vero. 

Grazie anche alle due figure/guida che ho citato sopra mi sono speso molto ed ho viaggiato molto. Ho partecipato a progetti pagando di tasca mia, per poi a volte essere invitato a svilupparne altri. Per soddisfare la sete di novità e di esperienze non ho atteso che le congiunture economiche giocassero necessariamente a mio favore. Ho spinto e insistito perché le cose andassero come avrei voluto.

Buenos Aires è stata la mia prima metropoli, la città tentacolare e infinita che tanto mi ha affascinato.

Seoul la mia prima metropoli asiatica, dove mi sono perso e poi ritrovato.

Milano, la nostra città internazionale, che tanto continua a mancarmi e dove spesso spero di tornare.

New York l’incontro con il mito contemporaneo, dove tutto ribolle e si trasforma a gran velocità.

Londra mi accompagna da tanti anni fino ad oggi, così facilmente raggiungibile fisicamente quanto distante per altri versi.

E poi India, Giappone, Svezia, Finlandia, Estonia, Francia e questi sono le nazioni dove sono andato di persona per frequentare o tenere workshop, mostre, residenze d’artista, presentazioni. Sempre con l’argilla tra le mani, visto che i miei viaggi hanno sempre a che vedere con il lavoro e con tempi di permanenza piuttosto lunghi. Il lusso e l’unicità di questi viaggi è darsi il tempo e quindi la possibilità di entrare in contatto con le persone del luogo e avere la sensazione di poterne capire i risvolti culturali.

Il mercato dell’arte è per me un terreno necessario quanto difficile da comprendere nella sua apparente semplicità d’intenti. Fin dal primo anno a Faenza ho prodotto molto e cercato di vendere tutto quello che mi è stato possibile, per necessità di denaro (eh si, il denaro è importante), ed esporre per necessità di un confronto fondamentale per capire se stai andando per la strada giusta oppure no.

Nel mio lavoro ho sempre portato avanti almeno due tipologie di opere, spesso piuttosto distanti tra loro in termini estetici anche se (per lo meno a me è sempre stato chiaro) concettualmente simbiotiche.

Ho continuato questa attività “bipolare” fino ad ora, modalità che per il mio carattere funziona bene ma per il mercato dell’arte un pò meno. 

Diciamo che questo modus operandi non paga quanto si potrebbe pensare.

Sembra invece che la continuità (qui intesa come ripetizione sempre più precisa e perfetta delle opere), sia ciò  che rassicura la stragrande maggioranza di galleristi e clienti/collezionisti.

Un unico consiglio che mi permetto di dare, anche se parlando di giovani artisti si suppone che tra me e loro ci possano essere una o più generazioni e quindi avere un riscontro pari a zero, è crederci fino in fondo. Perseverare, esserne dediti, accettare le rinunce che questa professione impone, perseguire la propria ricerca mettendo meno attenzione alle gratificazioni superficiali.

Perché qui di professione si parla, non di diletto e divertimento come spesso traspare dalle reazioni di chi si sente dire che noi si è artisti. 

Testo a cura di Evandro Gabrieli

Foto: courtesy dell’artista.

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instagram: faustosalvi_ceramics


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