In questi anni Ana Cecilia Hillar ci ha abituato ad installazioni inattese, fragili all’apparenza e di grande introspezione, frutto del lento lavoro di abili e sapienti mani, inizialmente portate in un ambito più materico e primordiale, ora volte ad uno sguardo di assoluta leggerezza, come se la materia avesse superato la sua consistenza per rendersi quasi diafana.
Questo nuovo ciclo, la cui anticipazione “teorica” è stata presentata lo scorso anno al 58° Premio Faenza, sottolinea un percorso di natura potrei dire “concettuale” in cui prevalgono una riflessione e una ricerca sui temi del viaggio e della dimora, della presenza e dell’assenza, del vuoto e dell’apparente silenzio che lo pervade, della fragilità umana e delle sue relazioni, dell’abitare come essere ed esistere.
Il nido, l’habitat, il contenitore sono mentali occupazioni di uno spazio, rivelazioni di un nostro desiderio di evasione nella leggerezza dell’atmosfera che ci circonda e ambizione di legami differenti.
Sono geografie dell’esistenza, luoghi ideali di vita, spazi di transiti immaginari. Vi è un cammino, un filo conduttore, un brivido quasi spirituale che lega i lavori e li rende carichi di un’energia speciale, che va al di là del dato materiale dell’apparente consistenza: l’artista ci invita a guardare oltre la gabbia dei nostri confini, oltre lo sguardo dei nostri limitati occhi.
In quei rami, che compongono una texture immateriale, troviamo le trame di un racconto, forme archetipiche e primordiali, la dimensione quasi epica della nostra esistenza, resa attraverso i modi di un fare antico.
La traccia lasciata dai piccoli segmenti naturali sottolinea la necessità di una leggerezza mentale, l’architettura che emerge silenziosa richiama presenze immaginarie, l’apparente trasparenza rimanda alla fragilità della nostra esistenza e del nostro vivere, riproposti in quei rami che si sviluppano all’infinito quasi in un mantra esistenziale, pervaso da un profumo di laica spiritualità.
Testo a cura di Claudia Casali
Foto: courtesy dell’artista.
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