D’APRÉS Riprese e citazioni nella ceramica contemporanea.

Allestita al Museo Opificio Rubboli di Gualdo Tadino, la mostra curata da Marinella Caputo e Domenico Iaracà si propone di indagare il rapporto di alcuni artisti che usano la ceramica con i capolavori o le correnti significative dell’arte precedente. Non ci riferiamo a copisti o epigoni, ma piuttosto alla citazione consapevole, riverente o irriverente che sia, rispetto all’arte del passato. Non a caso si è pensato, come sede, al Museo Rubboli, in cui lo storicismo tardo ottocentesco è attestato con esempi di alto livello qualitativo.

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Citazioni, reinterpretazioni, parodie e voluti snaturamenti si alterneranno nelle sale del museo. Gli sguardi attenti e la curiosità senza pregiudizi degli artisti, sono rivolti a molti linguaggi dell’arte, senza nessuna distinzione tra le cosiddette arti maggiori e quelle applicate, considerate impropriamente minori. Risultano significativi i tal senso i riferimenti alla grafica di un maestro indiscusso come Dürer, oppure alle incisioni erotiche giapponesi.

In questa trama di citazioni però, la ceramica cita anche e soprattutto se stessa, sia quella di artisti riconosciuti, ai quali viene tributato un meritato omaggio, sia quella anonima, ma non per questo meno importante, come gli ex voto di epoca romana, le belle donne rinascimentali, le rinfreschiere rococò o i bibelot della fine del secolo scorso.

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La ceramica ha talvolta perso la sua funzione d’uso, come quella di pregiato vasellame da tavola o indicatore di status sociale, rimanendo comunque specchio privilegiato della creatività degli artisti. Il progetto espositivo in esame intende proprio testimoniare ed indagare questa affascinante vitalità.

Nell’elencare tematicamente ogni artista partiamo quindi da una testa della serie Eccolo di Massimo Luccioli. Il titolo richiama apertamente l’Ecce homo di una ricchissima e radicata tradizione dell’arte sacra. Allo stesso modo il repertorio iconografico a cui attinge, nonostante la destrutturazione dell’immagine, è chiaramente individuabile: il volto tormentato, ottenuto dall’accumulo non programmato di frammenti lanciati sul sostegno centrale, rimanda al filone patetico della scultura. Risaliamo così indietro nel tempo fino a quel prototipo di volto scavato dalle rughe che è il cosiddetto Seneca. In una produzione in cui le citazioni si stratificano l’una all’altra, non manca neppure il rimando alla tradizione ceramica e un artista cresciuto e operante a Tarquinia fa non casualmente ricorso, fra le diverse tecniche sperimentate per la serie a cui appartiene quest’opera, anche alla tecnica del bucchero.

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Una vanitas contemporanea è invece quella proposta da Luca Freschi nella sua opera Black. Se negli oli fiamminghi erano prevalentemente immagini di fiori destinate ad appassire, la scelta dell’artista cade invece su quelle nature morte in cui i protagonisti sono gli animali. Singolare però la scelta fatta per quest’opera: un corvo, uccello che in più culture rappresenta il ponte tra il mondo dei vivi e l’aldilà. L’aspetto mimetico in realtà passa poi in secondo piano per puntare prevalentemente su un valore simbolico, ribadito pure dalla presenza di corni che, rinnovati ad ogni primavera, lasciano intravedere una speranza di rinascita. il tutto adagiato su un letto di frammenti, naturali o di ceramica. La natura e le opere dell’uomo sono così affiancati in un giaciglio in cui porcellane cinesi e resti animali sono frammiste le une agli altri, il tutto accomunato da un identico destino di declino e sospirata rinascita.

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Un’altra opera con richiami che sembrano attraversare larga parte della storia dell’arte è quella presentata da Maurizio Mastromatteo. Una figura umana in nudità eroica si affaccia da una nicchia e sporge verso lo spettatore. Una delle centinaia di statue presenti in ogni arco del Colosseo o le riproposizioni moderne di Nicola D’Antino per il foro dei marmi nella Roma mussoliniana? O forse il San Francesco di Zurbarán che sporge leggermente dalla nicchia con un suo piede così come fanno i santi di Sebastiano del Piombo alla galleria dell’Accademia di Venezia? Quale che sia la fonte di ispirazione di D’après la compostezza delle opere precedenti è abbandonata per un voluto dinamismo accentuato dai riflessi metallici del lustro che copre la figura in netto contrasto con lo sfondo dai toni neutri.

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Accumulo di citazioni incrociate e sovrapposte anima pure l’opera di Marino Moretti in cui tre grazie ricoprono i lati di un contenitore animato dai riflessi del lustro. Profondo conoscitore della ceramica orvietana medievale e non solo, Moretti sembra ribaltare la trama della vicenda biblica di Susanna e i vecchioni. Lì una sola figura femminile e due vecchi giudici ad insidiarla, ne Le tre grazie e il guardone le figure femminili si moltiplicano offrendo la possibilità di soffermarsi sul corpo femminile. La composizione scelta da Moretti strizza l’occhio alle bagnanti di Picasso che, con un tono irriverente, introduce una figura maschile che rompe la pace idilliaca del quadro iniziale. Da un campione della modernità qual è Picasso lo stilema degli occhi frontali nel profilo delle figure scelto da Moretti sembra poi riportarci indietro nel tempo fino alla pittura egizia.

Il tema del nudo, questa volta maschile, è tema predominante in un’altra opera antica, in particolare ne Il bagno degli uomini di Dürer. La celeberrima xilografia alterna figure in varie posizioni, pretesto per studi anatomici, senza escludere accostamenti allusivi. La reinterpretazione propostaci da Robert Zamboni punta invece altrove: non è la fisicità ad essere esaltata quanto l’espressività dei volti che rimanda, per esplicita dichiarazione dell’artista, alla ceramica informale e a nomi come quelli di Fontana nel suo periodo giovanile, Asger Jorn e Melotti. Un tocco di magistrale ironia è la trasformazione della tinozza della grafica cinquecentesca in un vaso da fiori di produzione industriale.

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Con la citazione di Dürer ci siamo spostati quasi inavvertitamente verso la grande grafica che, insieme alle opere della cosiddetta arte maggiore, compare in più citazioni. Una ripresa esplicita è quindi quella fatta da Fiorenza Pancino nella sua serie Sex&zen in cui il referente, dichiarato già dal titolo, è la grafica erotica giapponese. Forme falliche più o meno massicce ed esplicite sono coperte da riproduzioni di incisioni a tema erotico e non solo: la passione irrefrenabile ci porta verso vari oggetti del desiderio, ecco quindi che il caleidoscopio di immagini riprodotte sulle diverse opere della serie non esclude banconote e gli oggetti più diversi mescolasti insieme in un nuovo pantheon contemporaneo.

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Alla grafica d’arte si accosta anche la linea di ricerca di Angela Palmarelli, in particolare alla produzione informale di Dubuffet. Se quest’ultimo ha utilizzato la grana del terreno per le sue cartelle di incisioni, il Geomorfo della Palmarelli si rivolge alle tracce geologiche, alle stratificazioni e alle sedimentazioni presenti nelle rocce. In entrambi i casi però il referente oggettivo è solo un pretesto per lasciarsi andare al piacere del segno mentre, nella ricerca della Palmarelli in particolare, l’obiettivo finale si rivolge altrove, ad esempio all’idea del tempo e alla transitorietà umana, per non parlare dell’idea di astratto come unico possibile specchio del sacro.

Continuando il nostro percorso sulla trasposizione del segno arriviamo allo spunto formale raccolto da un artista di tutt’altra formazione e cronologicamente ben più vicino a noi. Ci riferiamo alla fotografia di Franco Fontana e al suo lavoro sulle tracce sull’asfalto, su quei segni che calpestiamo quotidianamente. La trasposizione dalla fotografia contemporanea alla scultura in ceramica è attuato da Evandro Gabrieli con la sua serie Lost highway, lavoro recentemente esposto Faenza e di cui si presenta qui un estratto significativo. La forma tridimensionale diventa qui un supporto su cui sviluppare il segno e sollecitare una riflessione sul valore della strada. Ecco che il tema kierkegaardiano della scelta trova uno specchio nel contemporaneo e in un’arte che non è solo ricerca formale

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In un continuo alternarsi di momenti storici e stimoli artistici differenti arriviamo ad un momento imprescindibile nella storia dell’arte italiana, il rinascimento, Questo trova nella città di Firenze uno dei centri propulsori e, al tempo stesso, la sede scelta per integrare la sua formazione londinese da Karin Putsch- Grassi. Non a caso la città compare pure nell’omaggio che questa tributa all’arte precedente. Opera iconica quanto mai, è la cupola del Brunelleschi ad essere ripresa, ed in particolare la sua riconoscibilissima trama a spina di pesce. Tratto costante nella ricerca di Putsch – Grassi è anche l’attenzione al cromatismo, l’alternanza del colore caldo della terracotta affiancato a quello della pietra così come quello dei marmi sulle facciate degli edifici, gioco cromatico ripreso nelle serie precedenti.

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Dalla citazione della terracotta come materiale di costruzione a quello delle argille, le opere in ceramica sono quasi inevitabilmente quelle a cui gli artisti selezionati si rivolgono con maggiore frequenza, siano essi ex voto prodotti migliaia negli stampi fin dall’epoca antica oppure raffinatissime realizzazioni in porcellana. Nella selezione forzatamente parziale presentata in mostra partiamo dalla spiazzante figura di Politico presentataci da Paolo Porelli. I diversi volti della scultura sembrano rimandare ai bestiari medievali e ai vizi che questi animali simboleggiano, quasi fossero una citazione dantesca. L’opera a lustro di Porelli – tra l’omaggio e la citazione del Museo che ospita la mostra – si inserisce poi in una ricca produzione di figurines che, a partire dalle tanagrine, ripercorrono l’intero percorso della storia della ceramica, fino alla serie di popolane in abiti tradizionali del Museo delle porcellane di Palazzo Pitti e alla mitologia sovietica che Grisha Bruskin ha presentato alla cinquantasettesima edizione della Biennale di Venezia.

Porcellane, disposte in scenografici allestimenti, erano diffuse nell’intera Europa in epoca barocca e rococò. Ed è a uno di questi gabinetti di chinoiserie che sembra rifarsi Marino Ficola con Ascolto, una delle sue opere su mensola. Ma diversissimo è il vaso a cui ci troviamo qui di fronte: nessun decoro policromo, non una citazione di forme tradizionali orientali ma una brocca panciuta recuperata casualmente. Quasi uno dei ready made a cui ci ha ormai abituato l’arte del ‘900, l’opera fa parte di una serie in cui Ficola interviene con cartigli con tracce di inchiostro a occluderne l’apertura e, al tempo stesso, a impedirne l’uso originario, metafora della perdita di significato dell’oggetto e, forse, di un’intera produzione con tradizione millenaria.

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Il tema della tradizione e della sua perdita di significato ci porta, con un passaggio quasi obbligato, a Paolo Polloniato. Le sue opere più recenti trasformano le forme vascolari in accumuli di detriti, ma già prima i suoi capricci ci parlavano di fabbriche di ceramiche ormai dismesse, di un paesaggio industriale in disuso. All’interno di una produzione e una ricerca varia ma coerente, l’opera scelta per la mostra è il primo dei suoi Metamutoidi, già presentato alla 22ème Biennale Internationale de la céramique d’art di Vallauris. Qui l’oggetto-vaso di tradizione settecentesca si anima di arti di puttini che ne sporgono e al tempo stesso ne sono inglobati, di appendici di provenienza industriale, in nuove forme dal significato sempre più criptico.

Tradizione e innovazione sono due poli su cui le ricerca contemporanea si interroga con una certa insistenza e non è il caso che due mostre contemporaneamente allestite in Umbria dedichino loro spazio. Parliamo de La vitalità perenne del lustro, citata nell’importante mostra assisiate, e Tradizione contemporanea di cui si presenta qui un pezzo storico. È il Centrotavola di Antonella Cimatti, appartenente alle collezioni del Museo, a testimoniarci una riproposizione, sintetica, di una forma tradizionale. La superfici lustrate animano i profili ad angolo vivo, ammorbidendoli e ricordandoci uno dei principali temi di ricerca della Cimatti, quello del colore, che insieme alle trasparenze e alle superfici traforate caratterizzano le sue opere esposte nei maggiori musei internazionali.

Sulla centralità del colore gioca anche la piccola coppa lustrata di Alan Caiger- Smith, anch’essa patrimonio della collezione permanente del museo e inserita nel percorso della mostra. Questa racchiude in sé tutti gli insegnamenti di Dora Billington alla Central School of Arts di Londra. Il gusto per il colore e le tradizioni decorative, che Timothy Wilson attribuisce allo stile della Billington, sono chiaramente rispecchiate nella realizzazione del suo allievo più noto e, per suo tramite, prende forma il tuffo indietro nella storia fino alle realizzazioni di periodo ispanico qui magistralmente reinterpretate. I tratti stilistici attestati dall’opera selezionata superano quindi la tendenza alla decorazione minimalista diffusa in Inghilterra tra le due guerre e testimoniano di una tendenza risultata poi fondatrice di una vera e propria scuola di gusto.

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Il rimando tecnico se non strettamente iconografico, dell’opera di Eraldo Chiucchiù è esplicitato già dal titolo Litofanie. Un termine ormai desueto e tecnologia moderna si fondono quindi in un’opera che rimanda alla produzione in porcellana della fine del XIX secolo ispirata dalla visita del Museo della manifattura Ginori e alla ricerca del tempo sulla trasparenza di tale materiale. La citazione letterale, saremmo tentati di dire, si presenta quindi sia come prova della versatilità di Chiucchiù con materiali sempre diversi sia come un omaggio indiretto allo stesso museo in cui l’opera viene esposta per la grande perizia di manifatture e opifici di uno dei periodi d’oro nella storia della produzione ceramica italiana.

Ci spostiamo alla produzione artigianale. Oggetto radicato nel folklore della città di Gubbio, la brocca è allo stesso tempo una forma di uso dalle radici profondamente calate nel tessuto culturale e produttivo e, sl contempo, pretesto per reinterpretazioni contemporanee di artisti di indubbio spessore. All’interno della selezione di riletture annualmente curata da Ettore Sannipoli, la scelta è caduta su Lucia Angeloni che ha saputo trasformare l’oggetto in un palinsesto delle mille componenti della città in cui l’oggetto stesso viene usato. Ecco quindi sovrapporsi caratteri della lingua umbra arcaica ad una fitta trama decorazioni a lustro, eccellenza ceramica storicamente attestata a Gubbio già nel Rinascimento.

Allo stesso periodo d’oro della produzione artistica, non solo ceramica, si rifà anche Mirco Denicolò. Le belle donne accompagnate da cartigli, le figure di sposi a cui erano dedicati piatti in pendant sono qui riproposti in un abbinamento inusuale: solo lo sposo compare nella crespina graffita che si contrappone ad una speculare con un profilo di gallo, forse richiamo al gallismo denunciato da Flaiano come vizio nazionale. Le due forme rivisitate campeggiano in un teatrino dall’estrema pulizia formale caratteristico della sua ricerca più recente, in un percorso dedicato alla rarefazione cromatica e compositiva.

Un percorso dedicato all’opposto alla pervasività delle immagini e al loro utilizzo quotidiano anima l’installazione Tuttitappi di Andrea Salvatori di cui si riportano solo alcuni esemplari significativi. Busti della Venere di Milo e ritratti di Mozart sono affiancati a palloni da calcio, stelle e teschi, in un repertorio iconografico contemporaneo che discrimina sempre di meno e sono utilizzati da Salvatori come tappi di ceramiche differenti, siano esse esemplari della manifatture tedesche Fat Lava o, come nel nostro caso, un vaso prodotto da Melandri a metà del secolo scorso. Ancora una volta, un confronto tra campioni dell’arte precedente e una ripresa decisamente irriverente.

Erede della maestria della tecnica del lustro e dell’opificio stesso che ospita la mostra, Maurizio Tittarelli Rubboli presenta un omaggio ad un altro centro umbro di antica tradizione ceramica, Deruta, con la rilettura contemporanea di una coppa amatoria conservata al Metropolitan di New York. La trasposizione del grande cuore lacerato che ne occupava il cavetto è l’elemento che riassume, per sineddoche, l’intera opera spostando il motto del cartiglio dell’originale a titolo dell’opera d’après. La sintesi degli elementi della composizione originale e l’originalissimo uso del lustro – prova che ne ribadisce la modernità fuori dal tempo – fanno dell’opera un perfetto esempio di quello che potremmo definire un’arguta parafrasi di un’opera antica.

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La stessa città di Gualdo Tadino vede sviluppare pure la ricerca di Graziano Pericoli, di cui si presenta in mostra un Versatore. La citazione scelta dell’artista sposta l’obiettivo di qualche secolo per presentarci una rilettura moderna dei bestiari medievali coprendo interamente il vaso, di una forma attestata tradizionalmente, con un animale fantastico tipico della produzione dell’artista. Come nel celeberrimo vaso minoico in cui l’intera forma vascolare era coperta dai mossi tentacoli di un polpo, anche qui forma e decorazione sono strettamente collegati fra di loro, ma la novità della versione moderna aggiunge anche un intricato affollarsi di tracciati: riproposizione degli arditi interscambi di Escher o, chissà, forse metafora della complessità del contemporaneo?

Un’opera decisamente sui generis a chiudere questa carrellata di omaggi e citazioni. È Giovane innocenza con cui Bruno Ceccobelli rivolge un debito omaggio a Paolo Rubboli e alla sua perizia nella lavorazione a lustro. Com’era successo con l’opera presentata al sessantesimo premio Faenza, è il tono poetico quello che permea l’opera. Se in quell’opera una poesia fa da contrappunto alle impronte di maiolica lustrata disposte a spirale sul pavimento, il suo omaggio si serve qui degli stessi strumenti della poesia e, per utilizzare termini della critica letteraria, fa ricorso a un contrappasso per opposizione. Il faticoso percorso per raggiungere i bagliori metallici trova eco nel nero del bitume che copre l’opera in mostra, nero amplificato dalla collocazione all’interno del locale dei forni ottocenteschi, a pochi passi dalle muffole che hanno fatto la fortuna dell’opificio Rubboli.

Infine due realizzazioni molto diverse ma che aprono una prospettiva sulle future tendenze della ceramica contemporanea. Partiamo da quella apparentemente più tradizionale, Disco di Paolo Demo: un contenitore con coperchio e con due anse laterali. L’eccezionalità del pezzo in realtà è dovuta alla superficie riflettente ottenuta con una procedura mai tentata prima su superfici ceramiche così estese e realizzata nel più grande forno esistente sul territorio nazionale. Uno sguardo apparentemente gettato nel futuro ma che in realtà ha precedenti decisamente antichi; a chi si occupa di ceramica contemporanea forse possono fuggire, ma la produzione in bucchero pesante di tradizione etrusca nasce esattamente da questo, dal tentativo cioè di riprodurre in un materiale più malleabile il grande vasellame in metallo sbalzato. Discorso molto simile può essere fatto per Traced di Nicola Boccini in cui il tracciato di un elettrocardiogramma sostituisce la decorazione tradizionale di un oggetto ceramico. Non sono solo questi gli ingredienti della complessa ricerca portata avanti, una ricerca che raggiunge una perizia tecnica decisamente inusuale e risultati innovativi. Questa fa sì che la superficie di porcellana sia illuminata secondo un ritmo predefinito, in particolare il ritmo cardiaco delle persona scelta, e che sia un programma informatico a regolare la corrispondenza tra suono e luce. Anche qui uno sguardo decisamente rivolto nel futuro ma, non casualmente, riprendendo la forma che più delle altre è strettamente connaturata alla ceramica, quel cerchio del piatto e del contenitore, sia esso plasmato o tornito, quella forma d’uso probabilmente più diffusa in assoluto in ogni tempo. In sintesi due esempi di sperimentazione, due ricerche che combinano altissima tecnologia alla ceramica e, fra tutte, alle forme più tradizionali che questa abbia mai assunto.

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Alla fine di questo breve testo un’opera purtroppo assente tra quelle esposte, data la sua esposizione in una mostra concomitante, ma da cui idealmente ha preso il via l’intero percorso di ricerca che ci ha animato fino a qui. Ci riferiamo a Graziegrazie di Giulio Busti. La citazione di Busti si rivolge al piatto con le tre grazie, lustrato da Mastro Giorgio ed ora al Victoria and Albert Museum di Londra, un’opera d’après ispirata ad un grande capolavoro e, questo, una citazione di Raffaello tramite le stampe di Marcantonio Raimondi. Il gioco delle citazioni si fa dunque complesso, così come nell’autoritratto di Munch à la Marat in cui si rimanda ad un Jacques-Luis David che, a sua volta, cita la pietà di Michelangelo nel braccio lasciato cadere a terra. Potrebbero bastare questi due soli esempi a dimostrare come l’assunto di un’arte che si nutre dell’arte è vera nel ‘500 come lo sarà nell’ ‘800 e, perché no, ancor più al giorno d’oggi. Concludendo, con questa mostra il nostro plauso a quanti sanno parafrasare il mondo circostante – e quel suo specchio privilegiato che ne è l’arte – con la dote sempre più rara dell’arguzia.

Testo: Domenico Iaracà

Foto: Paolo Emilio Sfriso


Contemporary Italian Ceramic – CiC è il primo blog di ceramica diffuso, con uno sguardo alle tradizioni ma sopratutto alle nuove correnti artistiche del panorama Italiano e non. www.contemporaryitalianceramic.com

 

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