Keramikos 2020 approda a Napoli con “MEDITERRANEO”

L’opportunità di ordinare per la seconda volta Keramikos dopo la prima fortunata esperienza de 2018 a Viterbo, mi consente di aprire un’ulteriore riflessione attorno al tema della scultura ceramica. Se a Viterbo la mostra si strutturava sulla doppia lettura storico-critica, costruita attorno a quattro espressioni linguistiche del Novecento ordinate secondo la formula dell’omaggio ad altrettanti maestri storici: Giacinto Cerone, Giuseppe Pirozzi, Amilcare Rambelli e Franco Summa, assunti come modello entro cui polarizzare e vagliare, in continuità o discontinuità, alcune delle ricerche a noi contemporanee, in questa edizione partenopea l’approccio è ribaltato. Non più una visione che storicizza il contemporaneo, ma all’opposto le ricerche odierne che attualizzano e riflettono attorno ad un argomento che attraversa la storia. La mostra si concepisce infatti sull’idea di Mediterraneo.

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Opera di Evandro Gabrieli

A suggerire il tema è stata la stessa città di Napoli, in generale per la sua posizione geografica posta come faro al centro stesso del Mediterraneo, ed in particolare il luogo che ospita la mostra: Il Museo di Ceramiche Duca di Martina, situato nella splendida cornice di Villa Floridiana immersa nel giardino settecentesco che dall’alto si affaccia sull’infinito orizzonte marino.

Il Mediterraneo dunque come motivo conduttore che lega Napoli, la sua storia, il suo porto, i suoi scambi commerciali e culturali, alla materia prima per eccellenza: la terra, con cui nei secoli l’uomo ha elaborato forme, narrato storie, impresso credenze, travasato culture talvolta molto lontane e diverse, capaci oggi di offrire suggestioni formali, evocare itinerari, memorie di viaggi che riecheggiano nelle collezioni custodite nel Museo di Villa Floridiana sulle cui origini è chiamata in questo catalogo a riflettere Valentina Fabiani.

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Opera di Massimo Luccioli

Risiede anche nell’etimologia della parola Mediterraneo un’affinità tra il tema scelto e il mezzo ceramico. Medius (media) e Terra formano la composizione del nome Mediterraneo che, a volerne attualizzare il senso, mi pare si possa esemplificare come uno spazio indefinibile e incerto che “media” (si pone in mezzo) tra terre lontane e vicine. D’altronde non credo ci sia nulla di più indefinibile del mare, soprattutto per chi lo naviga, in cui, come per Ulisse, l’incertezza del viaggio è l’unica certezza del viaggiatore. Allo stesso modo, procedendo per metafora anche l’argilla per lo scultore media tra l’idea e l’opera finita, pur nell’incertezza del processo. La ceramica più di ogni altro mezzo vive l’indeterminabile certezza del risultato finale. Fausto Melotti la considerava una materia “anfibia”, ostica in quanto a rovinare o a completare il tutto interveniva l’imprevedibilità del fuoco.

L’imprevedibilità così come l’incertezza del risultato sono le variabili da mettere in conto sia per il navigante quanto per lo scultore, ma sono anche fattori preminenti che contraddistinguono i modelli sociali ed economici con i quali la nostra contemporaneità si organizza.

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Opera di Mara Ruzza

Il tema offre dunque possibili spunti per riflessioni attorno alla nostra epoca, ai comportamenti e alle decisioni che il nostro tempo e la nostra cultura sono quotidianamente chiamati ad assumere, tracciando quella linea del presente che va consegnandosi alla storia in una sospensione di giudizio che spetterà ai posteri, ma che consente tuttavia di interagire in forma dialettica, anche e soprattutto attraverso le forme e i linguaggi artistici. È su questo punto che i ventisei artisti si sono interrogati offrendo al pubblico il proprio personale punto d’osservazione, tra un continuo rimbalzo di suggestioni mnemoniche e metafore contemporanee si gioca la narrazione di questa mostra che si articola in una poliritmia di linguaggi ed espressioni che non solo attualizzano la ceramica come mezzo, ma ne esaltano la versatilità operativa.

Credo sia su quest’ultimo punto che occorre tornare a leggere la scultura in generale, e la ceramica in particolare, al di là delle tecniche impiegate, certo importanti ma non dirimenti, o i contenuti espressi, è piuttosto sul come questi hanno preso forma, indagando cioè le modalità operative degli artisti per dare corpo all’idea.

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Opera di Riccardo Monachesi

Per mettere a fuoco ulteriormente questo aspetto si è deciso di raggruppare in due ambiti la ricerca degli artisti di cui si sono occupati nello specifico Francesca Pirozzi, Domenico Iaracà e Marco Mariamedi Polloniato. Francesca Pirozzi ha indagato la lettura dei quattro artisti con maggiore esperienza: Clara Garesio, Muky, Giuseppe Pirozzi e Franco Summa, ai quali è riservata una sezione specifica della mostra, quasi a voler costruire un dialogo generazionale attorno al tema scelto, separando, ma certamente non slegando la proposta di questi da quelle delle più giovani generazioni sulle quali si sono interrogati Domenico Iaracà e Marco Maria Polloniato, che a loro volta hanno circoscritto i lavori in due macrotipologie linguistiche. Il primo, tiene conto di una lettura che trova fondamento in un approccio mnemonico di Mediterraneo; una memoria che può fare i conti con la grande storia o con il ricordo personale filtrato in ogni caso da una visione soggettiva. Il secondo raggruppamento invece prevede una declinazione di Mediterraneo maggiormente concentrata sulla metafora di una situazione più contingente, che si sforza di immergersi nell’attualità di una situazione con la quale siamo chiamati a confrontarci inevitabilmente.

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Opera di Alfonso Talotta

Un confronto dialettico, costruito in un’ottica di relazione in cui gli artisti non si sottraggono al confronto tra generazioni e modelli anche storici con le collezioni presenti nel museo, che entrano necessariamente a far parte del percorso espositivo. Ne esce una moltitudine di stimoli e suggestioni in cui i singoli lavori generano rapporti tra di loro sospendendo il tempo e annullando ogni distanza geografica. Tuttavia la ricchezza più grande che emerge è la varietà di proposte che mi sembra si possano ricondurre ad almeno tre tendenze operative: la prima concepita per accumulo o sedimentazioni di elementi, evidente nel lavoro di Clara Garesio che dissemina in un’onda marina immagini che sedimentano nella memoria, mentre in una linea assonante ma di natura più antropologica si muove Sabine Pagliarulo che procede per prelievi di forme organiche in un’ottica di costruzione oggettuale dal sapore magico propiziatorio. Mentre più materici ed entrambi giocati sull’idea di una pressione sono i lavori di Angela Palmarelli e di Carla Francucci. La prima procede per sedimentazioni stratigrafiche di fogli d’argilla posti in orizzontale quasi a documentare il grande libro della natura, una sedimentazione tuttavia minacciata da una morsa che tende a schiacciare i fogli dimenticando il valore della storia non solo umana quanto quella naturale.

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Opera di Sabino de Nichilo

La seconda giustappone i fogli di terra bianca in senso verticale, ripiegati in più parti in cui rimangono impresse le forme del tempo. Sull’idea di accumulo si muove anche Giuseppe Pirozzi, in una sedimentazione di forme e oggetti che trovano dimora in pagine di argilla entro le quali confluiscono ricordi passati, immagini attuali e visioni oniriche. Mara Ruzza racchiude in un triangolo costernato da inserti in porcellana l’idea del mare, che rimanda al ventre femminile alla culla delle civiltà entro cui si incastra al centro un prisma di plexiglas quale elemento estraneo alla natura, riflettendo dunque sull’attuale condizione di inquinamento.

All’opposto invece Attilio Quintili, in un unicum linguistico di ricerca, procede per scioglimenti, decostruendo ogni idea formale dell’opera. La sua è un’azione processuale in cui riporta allo stadio originario la materia prima, immergendo i frammenti di esplosioni in un barattolo d’acqua, da cui tuttavia si innesta un processo di naturale ricreazione organica. Una nuova vitalità naturale, lontana dalla mano artistica, quanto semmai vicina ad una spiritualità materica, riprende forma da ciò che si è voluto perdere, ma che naturalmente va organizzandosi in stratificazioni materiche.

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Opera di Angela Palmarelli

Un secondo livello operativo mi pare si possa riscontrare nella tendenza di una modellazione narrativa, su questo raggruppamento Franco Summa omaggia la cultura mediterranea attraverso tre delle sue Koree ricorrendo al mito reinterpretato tuttavia in un’ottica di recupero delle tradizioni folklorisitche, mentre Antonio Taschini, sempre sul filone mitologico, ricorre ad un elemento statuario come la testa, che anche dal colore imita il bronzo arcaico greco-romano, attualizzato tuttavia da un doppio elemento: un impalcato metallico che costringere la testa imprigionandola e il codice di simboli e cifre incise nella superficie della stessa che vanno evidenziando la distopia del nostro tempo che riduce a numeri la dignità umana. Anche Massimo Melloni attinge dalla mitologia di stampo greco ricorrendo alla tragedia come maieutica in una rappresentazione scultorea del Minotauro. Un mare dunque che genera mostri e che si riverberano nei comportamenti di chi è chiamato alla responsabilità del potere.

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Opera di Sabine Pagliarulo

In una narrazione simbolica si muove Andrea Caruso, che legge il mare attraverso una materia scabra ruvida, dalla quale prendono forma una mano e un elmo che affiorano dalle profondità marine; simboli della forza e delle culture che il bacino ha raccolto nei secoli. Un assemblaggio che suggerisce anche la necessità di un nuovo idolo marino, mentre più cronachistiche si fanno le sculture di Massimo Luccioli e di Giorgio Crisafi. Il primo si relaziona con la tradizione funeraria etrusca trasformando i letti dei defunti in vasche riempite di polvere di vetro, che conferisce alla superficie una colorazione marina dalla quale affiora una testa. Cosi è se vi pare è una scultura che recupera l’immagine di attualità, quasi televisiva seppure riconnettendo la cronaca ad un tempo lontano. Mentre Crisafi lavora sulla narrazione più emozionale e attraverso due elementi: un volto e un lenzuolo che si fa onda e allo stesso tempo telo con allusioni anch’egli funerarie, riesce, con un colore neutro come il bianco, a costruire una scena di intensa drammaticità che affonda le proprie ragioni nell’indifferenza contemporanea. Toni Bellucci recupera invece la narrazione storica dell’oggetto vaso, come metafora di comunicazione tra le culture mediterranee trasformandolo in vela evocando le rotte commerciali che hanno veicolato la cultura mediterranea. Mentre Riccardo Monachesi si cimenta con la verticalità di un cilindro rimandando alla morfologia della colonna classica, emblema della cultura mediterranea, sulla quale applica, attraverso l’asportazione di uno spicchio, la sezione aura che assieme al blu di Persia, con cui è dipinto l’interno della colonna, rimanda all’unione culturale e geografica di tutte le culture del bacino mediterraneo. In una modellazione più organica si muove la ricerca di Sabino de Nichilo, mentre di stampo prettamente pittorico è la narrativa di Luca Baldelli, che unisce alla forma archetipica, quella dell’uovo, l’astrazione cromatica e il segno primordiale che si va sempre più definendo, anche in lavori recenti, verso un recupero di un certo automatismo surrealista. In una prospettiva più personale è invece la costruzione architettonica: il Trabucco, che elabora Evandro Gabrieli attingendo direttamente da ricordi giovanili.

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Opera di Mirna Manni

Anche Tonina Cecchetti ricorre alla modellazione simbolica narrativa che si costruisce in una condizione di visione soggettiva, di genere, attraverso cui esprime, in un linguaggio figurale, la propria denuncia verso lo svuotamento di valori umani. La terza tendenza mi pare possa essere invece ricondotta a un’operatività che impiega l’impronta come gestualità evocativa, su questa si muovano le sculture “geografiche” di Stefano Soddu e quelle più iconiche di Alfonso Talotta, Eraldo Chiucchiù e Rosana Antonelli, mentre fortemente simbolica è l’opera di Mirna Manni giocata tra attualità e rimandi a simbologie sacre. Ugualmente simbolica, ma in una concezione che evita la drammatizzazione, è collocabile l’opera di Muky costruita per sedimentazione ma in cui l’impronta, lasciata nell’inserto in terracotta, è l’elemento dirimente, l’unico segno riconducibile ad un passaggio che immagina il futuro e proietta l’opera, Duemilaventi, nella prossimità del tempo in cui a vigilare non resta che la necessità di uno sguardo superiore: “divino”. Anche le ricerche materiche di Marta Palmieri si costruiscono per sedimentazioni di ossidi e fanghi vetrosi, la cui intensità è tuttavia espressa dalla forza dell’impronta lasciata sulla materia fresca che assieme al pigmento tenue del blu, che degrada in variazioni tonali verso l’azzurro e il bianco, rimanda simbolicamente alla densa struttura del mare.

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Opera di Carla Francucci

Keramikos raccoglie dunque una complessità di linguaggi e tendenze attorno alla scultura ceramica, e forse rimane uno dei pochi esempi espositivi in cui si tenta di ordinare in filoni organici le ricerche contemporanee. Napoli e l’eredità del Mediterraneo Valentina Fabiani Il mito della fondazione di Napoli si intreccia al viaggio lungo e periglioso di Ulisse attraverso il Mediterraneo. Nel XII canto dell’Odissea si racconta, infatti, la vicenda della sirena Partenope, legata alla fondazione della città prima ancora che i Greci la ribattezzassero Neapolis a seguito della disfatta degli Etruschi del 474 a. C. Secondo la leggenda, le sirene che abitavano le coste della penisola sorrentina tentarono di sedurre Ulisse e il suo equipaggio. L’eroe greco, l’unico a sentirne il canto, si fece incatenare all’albero maestro della nave per resistere al loro richiamo.

La sirena Partenope, affranta dal rifiuto dell’uomo, decise allora di gettarsi da un’alta scogliera e trovò così la morte tra le onde; il suo corpo, trasportato dai flutti, sarebbe stato ritrovato sull’isola di Megaride, un isolotto collegato alla costa di Napoli da una piccola lingua di terra – dove oggi sorge Castel dell’Ovo – e avrebbe dato origine alla città e forma al suo promontorio. Napoli, che per sua natura è terra di approdo, calda e assolata, nasce dunque dal mare. “Il suo splendore è così vivo che la terra si riflette in cielo, che pare lampeggi di continuo: il cielo, a sua volta, si riverbera nel mare, e la natura sembra ardere di una triplice immagine di fuoco”1. Così appare il Golfo di Napoli, coronato dal Vesuvio, a Madame de Staël durante la visita alla città, in una descrizione dai toni romantici che sembra quasi una gouache volta in prosa. Ad attrarre i viaggiatori del Grand Tour, oltre al mito delle origini e all’interesse per l’archeologia, è il fascino di una città che nell’età dell’illuminismo conserva ancora dei tratti “selvaggi”, lontanissimi dalla modernità del Nord Europa. E’ l’umanità che la abita, pittoresca e rumorosa, a far da contrappunto alla natura tanto sublime. Questa immagine di Napoli, restituita in moltissimi racconti di viaggio e in vedute, contribuisce all’idea che il Sud della Penisola sia rimasto sospeso in una condizione atemporale e submoderna. Il Mediterraneo, culla dell’antica civiltà italica e crogiuolo di popoli, è un luogo indispensabile all’articolazione di un’identità europea che riconosce le proprie origini ma intende prenderne distanza, come il Moderno che si contrappone all’Antico.

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Opera di Attilio Quintili

All’interno della città stessa, nel corso dell’Ottocento, era quanto mai evidente il divario tra nobiltà e popolino, tra la modernità delle prime infrastrutture e l’affollamento dei quartieri “spagnoli”, tra la luce artificiale della prima rete elettrica e il buio dei bassi… Sebbene la vita si concentrasse in spazi vicinissimi, due anime abitavano lo stesso luogo. Questa distanza sociale che, insieme al dato paesaggistico, tanto aveva impressionato i viaggiatori stranieri, si rifletteva anche nella distinzione tra una cultura per definizione “alta”, promossa dal casato Borbonico, dal clero, da nobili committenti e collezionisti, e una cultura “bassa”, delle tradizioni popolari e artigiane, tramandate nelle strade e nelle botteghe, non prive di influssi provenienti dal Mediterraneo.

Anche in campo ceramico, le vicende legate alle piccole imprese a carattere artigianale si contrappongono alla produzione di raffinate porcellane avviata dalla Real Fabbrica di Capodimonte (1743 -1759), voluta e sostenuta da Carlo di Borbone, e dalla Real Fabbrica Ferdinandea, fondata nel 1773 da Ferdinando IV di Borbone. Mentre le manifatture reali producevano raffinati servizi destinati alle tavole dei regnanti, le imprese artigiane realizzavano principalmente ceramica d’uso, per la tavola e la cantina 2, con una vasta produzione di boccali dal ventre globulare e collo svasato, piatti, ciotole, “giarre” e lucerne. Avevano, inoltre, orientato la produzione verso un gusto “popolaresco”, con opere estrose ed esuberanti, destinato ad un pubblico sempre più vasto e interessato all’acquisto di souvenir di viaggio che conservassero il carattere “primitivo” della cultura napoletana.

CATALOGO MediterraneoKERAMIKOS 2020

Opera di Antonio Taschini

Statuine femminili dalle procaci sembianze abbellivano gli oggetti tradizionali delle fabbriche locali e si rifacevano, più o meno consapevolmente, ad una tradizione coroplastica risalente alle divinità femminili modellate nella Magna Grecia3. Uno dei punti di forza della ceramica napoletana era, inoltre, la produzione di piastrelle, largamente esportate nell’Impero Ottomano, nel Nord Africa e nella zona del Maghreb, fino alla fine dell’Ottocento.

Il Museo del Duca di Martina ospita una delle maggiori collezioni italiane di arti decorative, donata nel 1911 alla città di Napoli dagli eredi del Duca. Essa comprende oltre seimila opere di manifattura occidentale ed orientale, databili dal XII al XIX secolo, il cui nucleo più cospicuo è costituito dalle ceramiche: tra queste, solo un piatto di manifattura locale del XVIII secolo, raffigurante una scena di genere con dei Pulcinella, dimostra una sottile attinenza alla tradizione ceramica locale, di stampo popolare. La raccolta riflette, invece, il gusto eclettico e raffinato del suo collezionista Placido de Sangro, Duca di Martina, e la cultura elitaria del tempo. Il duca, nato a Napoli nel 1829 e appartenente ad un illustre casato strettamente legato alla corte borbonica, si era trasferito a Parigi dopo l’Unità d’Italia. Nella capitale francese iniziò ad acquistare oggetti d’arte applicata, entrando in contatto con i maggiori collezionisti europei, come i Rothschild, e partecipando alle grandi esposizioni universali di Londra e Parigi che avevano contribuito a diffondere i prodotti nazionali e l’interesse per le arti applicate all’industria. Il Duca comprava addirittura interi lotti di oggetti da inviare a Napoli, per arricchire la sua raccolta custodita nella residenza di piazza Nilo.

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Opera di Eraldo Chiucchiù

Dal 1931 Villa Floridiana, nel cuore del Vomero, è lo scrigno che racchiude questa collezione eclettica, che include opere delle fabbriche reali napoletane, della manifattura toscana Doccia Ginori, di Sèvres e di Meissen e “le ceramiche” orientali che largamente hanno influenzato la produzione delle maggiori fabbriche europee. Essa rappresenta, pertanto, il racconto di una cultura “di tipo continentale” che si svolge mentre la città partenopea continua i suoi scambi via mare. Dal Belvedere che si trova sul retro del Casino Nobile, lungo il versante naturale che degrada verso la costa, si apre una splendida vista sulla baia di Napoli. Qui l’immagine della città contraddittoria, ricca e povera, nobile e plebea, unita e spaccata, si ricompone sotto il “greco firmamento”5 e Castel dell’Ovo, sullo sfondo, torna a raccontare la sua lontana storia di viaggiatori e di sirene.

Testo a cura di Lorenzo Fiorucci


Contemporary Italian Ceramic – CiC è il primo blog di ceramica diffuso, con uno sguardo alle tradizioni ma sopratutto alle nuove correnti artistiche del panorama Italiano e non. www.contemporaryitalianceramic.com

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