Keramikos 2020 a Napoli. NOMEN OMEN. Napoli come Nea – Polis e la sua vocazione al contemporaneo.

 

L’edizione 2020 di Keramikos ha visto più contributi critici a corredo del catalogo edito da  Freemocco editrice di Deruta. Qui di seguito quello di Domenico Iaracà.

Diverse culture premoderne consideravano il nome di oggetti, persone e città come uno specchio della loro natura intima, della loro essenza, una chiave interpretativa che ne permettesse la conoscenza profonda, ma anche un’arma in mano a possibili nemici che ne volessero la rovina, al punto di cercare di mantenerlo segreto. Un aspetto, questo, che talvolta sfuggiva agli stessi portatori di un nome al punto che l’omen, ovvero il presagio nascosto nel nome, veniva compreso solo una volta che il questo stesso si realizzava.  Come detto, tale prerogativa era tipica pure delle città e, ad esempio, nell’area prospiciente il foro romano in epoca repubblicana esisteva il tempio di Libitina o Lubentina, pseudonimo della stessa città di Roma che veniva tenuto nascosto ai possibili nemici sotto questa forma di mascheramento. Se le ricche fonti archeologiche ed antiquarie su Roma ci permettono di ricostruirne questo tratto, non siamo purtroppo altrettanto ben informati su tale aspetto della città di Napoli. Napoli dicevano, quella città nuova, la Nea – Polis costruita a poca distanza dal precedente insediamento di Pithecussa, sull’isola di Ischia. Ecco così emergere le profonde radici mediterranee della città di Napoli,  gemmazione della più antica e più settentrionale delle colonie greche nel Tirreno, al margine dei territori dell’Etruria campana e sulle rive di quel mare che dagli stessi etruschi, ovvero Tyrsenoi, ha poi preso nome. Se la città di Napoli trovò anticamente una spinta dall’incontro – scontro, dal confronto dialettico tra due grandi civiltà mediterranee dalle radici lontane del tempo, non per questo il suo destino attuale è legato al solo passato ma si contraddistingue per una marcata attenzione al contemporaneo. Non intendiamo qui ripercorrere, per quanto sommariamente, le innumerevoli istituzioni pubbliche e private legate al contemporaneo, le storiche gallerie d’arte, le opere di arte pubblica che fanno, ad esempio, della metropolitana della città un vero e proprio museo diffuso, ma ci accontenteremo di citare una tradizione radicata di confronto tra antico e moderno, se non addirittura contemporaneo, tipica dei suoi musei, primo tra tutti quello di Capodimonte.

 

In una città in cui il confronto tra antico e contemporaneo e la rispettiva commistione sono ormai un dato acquisito andiamo a scorrere per sommi capi alcune opere della mostra che presentiamo. Ci soffermeremo qui di seguito sugli artisti che, tra le diverse possibilità, hanno scelto un approccio più marcatamente figurativo e le cui opere riflettono sui temi della storia, individuale o collettiva che sia. L’approccio figurativo non significa affatto che l’intento sia esclusivamente mimetico ma, al contrario, si riscontra un forte messaggio metaforico o un richiamo a quella storia che, nelle intenzioni degli artisti, deve essere riletta con occhi nuovi.

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Partirei al proposito da due opere in un certo qual modo esemplificative di quanto appena detto. L’onda di Eraldo Chiucchiù ci permette di ritornare all’elemento fluido, mai uguale a se stesso, del paesaggio preso in considerazione. Un’onda, definizione per sineddoche dell’intero mare, portatrice e trasportatrice e pregna di diversi significati. Con riferimenti plastici alla classicità greca, è elemento mutevole, come già detto, ma anche simbolo della potenza del mare. Per quanto lontana eco, forse, del concetto romantico del sublime, inteso come esaltazione dell’immensamente grande e dell’immensamente potente, la sua realizzazione è demandata ad un materiale estremamente fragile come la ceramica e, in particolare, al bianco della porcellana. Le superfici invetriate animano la superficie monocroma e un richiamo interno alla produzione di Chiucchiù ci rimanda alle realizzazione dei ghiacci già presentati, tra le altre esposizioni, all’edizione 2018 di Keramikos, a Viterbo. Ecco così realizzata una sintesi tra la fissità dell’elemento solido e l’onda, elemento irrefrenabile per eccellenza, di cui si immortala il momento precedente l’infrangersi sull’arenile. La difficoltà di definire il Mediterraneo è così riassunta in un’unica immagine, decisamente la più comprensibile al primo sguardo e dal referente oggettivo immediato. 

eraldo chiucchiù

Risalendo indietro nel tempo, oltre la forma classica dell’onda realizzata da Eraldo Chiucchiù, l’opera dai tratti informali di Andrea Caruso sembra rimandare ad un paesaggio e ad idoli mediterranei risalenti ai primordi delle nostre civiltà. È la terracotta il materiale che l’artista sceglie per realizzare la struttura di Roccia mediterranea in cui mani sembrano stringersi.  A ribadire la doppia natura, umana e geologica, della forma riprodotta, le mani sono però trasformate in pietra, la morbidezza delle forme umane assumono gli spigoli vivi dell’elemento naturale quasi a denunciare lo sforzo richiesto e necessario a quanti decidono di voler rimanere umani davanti alle sfide presentateci dal nostro tempo. Ecco così che la storia, mediterranea e non solo, è un lungo susseguirsi di eventi in cui lo scontro più che l’incontro sono stati protagonisti. Mani rapprese, dita strette a pugno e non aperte verso l’altro. La stessa scelta cromatica operata da Andrea Caruso sembra non essere indifferente: colori scuri, cianotici, potremmo quasi dire innaturali se riferiti alla carnagione umana. Se leggiamo poi l’opera non da sola, ma inserita all’interno di una produzione più ampia che l’artista porta avanti da tempo, riscontriamo una certa insistenza sulla tematica dello scontro: un esempio che crediamo significativo penso possa essere riscontrato nella sequenza di ordigni bellici presentati in mostra a Roma.

andrea caruso IMG_8892

Quale immagine è più profondamente connaturata alla storia del Mediterraneo di una nave? Barriera all’apparenza insormontabile, il mare è stato nel corso dei millenni lo scacchiere in cui si sono incrociate e scontrate le diverse potenze marinare. Da teatro di una navigazione di cabotaggio ai viaggi più arditi da una costa all’altra di questo bacino chiuso, fulcro vitale e crocevia di culture nel periodo antico per essere poi abbandonato a favore di un Europa continentale nel corso del medioevo. Commerci e crociate riassumono gli intenti pacifici o dichiaratamente bellicosi dei secoli successivi finché la scoperta di nuovi mondi ha limitato l’importanza strategica del Mediterraneo, per arrivare infine, ben più vicini ai nostri giorni, al taglio dell’istmo di Suez e al rinnovato ruolo centrale di questo piccolo mare. Mille storie diverse sembrano essere riassunte nelle cangianze della realizzazione di Toni Bellucci, un vaso che abbandona la sua forma canonica per aprirsi a delle vele e ad uno scafo di nave. Oggetto reale e metaforico al tempo stesso, contenitore di storie e di ricordi e, perché no, di prospettive. Rielaborato da una forma tradizionale, forse proveniente dal Marocco con una scelta politicamente non neutra. Guardare dichiaratamente fuori dal più ristretto orizzonte culturale dell’autoctonia è una dichiarata rinuncia all’etnocentrismo, fenomeno quanto mai evidente in questi anni. Forme di paesi lontani e materiali comuni, condivisi fra una sponda e l’altra del mare, sintetizzano le identità distinte, ma non contrapposte, di diversi attori di una storia millenaria e, si spera, destinata a dialogare ancora a lungo. La forma stilizzata delle nave non rimanda infatti ad un orizzonte cronologico stabilito, ma all’idea archetipica del mezzo di trasporto, fuori dal tempo, utilizzata per arrivare fino alle nostre terre ma, allo stesso tempo, il mezzo che ha permesso alla civiltà europea di aprirsi verso nuovi orizzonti. E non è un caso che lo stesso temine sia utilizzato per quei mezzi, le navicelle spaziali, che continuano a dare vita ai nostri sogni di raggiungere terre nuove fuori dal nostro pianeta.

toni bellucci

Come anticipato, stupisce come il referente oggettivo e il contenuto metaforico siano così strettamente collegati fra di loro, tanto più quando l’opera si presenta già passibile di una lettura immediata presentandoci, ad esempio, un’onda o una nave.

Abbiamo già parlato sinteticamente delle vicende di cui il Mediterraneo è stato teatro, l’incontro – scontro di culture e civiltà, sulle sue acque e nei paesi che si affacciano su questo bacino. Parlare di incontro e scontro al tempo stesso significa sovrapporre le dinamiche della conoscenza reciproca a quelle della possibile sopraffazione. Se volessimo, ad esempio, parlare della sola colonizzazione di epoca antica, greca o fenicia che fosse, dovremmo ricordare come questa prevedesse il viaggio oltremare dei soli uomini e la sopravvivenza stessa dell’insediamento lontano dalla madrepatria richiedeva necessariamente la razzia di donne tra le popolazioni locali. Abbiamo tutti presente l’immagine vorticosa della scultura che il Giambologna dedica al ratto delle donna sabine, ma dietro questo capolavoro, così come dietro alla mitica pacificazione delle due popolazioni coinvolte, si nascondono in realtà scontri e violenze.

Arrivando poi alle crociate e alla battaglia di Lepanto, lo scontro si trasforma da un evento che coinvolge non più gruppi ristretti di persone, ma diventa una vera e propria guerra di civiltà. Ecco quindi che le vie del mare, a lungo opportunità di conoscenza reciproca, hanno avuto una storia parallela, collegata ad un calvario che coinvolge i popoli o i singoli che si accingono ad attraversare queste acque. Il termine calvario non è casuale per descrivere l’opera che Mirna Manni presenta in questa mostra. Alla stessa famiglia metaforica appartiene infatti l’immagine di croce che sovrasta la sua realizzazione e il richiamo lessicale del titolo dell’opera stessa Croce-via. Una strada, indubbiamente, che unisce i tre blocchi su cui questa si appoggia, richiamo ai tre continenti che si affacciano su questo specchio d’acqua. Molteplici i percorsi incrociati che si sono sovrapposti, nei millenni, su queste acque e quindi l’opera è un perfetto esempio di crocevia, di una via disposta a croce. Ma la croce rappresenta ormai, per millenaria tradizione giudaico-cristiana, anche il simbolo della sofferenza. Ecco che quella via liquida, quella croce scivola giù, lungo i fianchi di questi saldi blocchi continentali, finisce per presentarsi come lo spettro della sofferenza per antonomasia, una sofferenza che si fa quasi fatica a descrivere con parole e immagini realistiche. La sensibilità di Mirna Manni, persona ed artista, non è insensibile alle vicende dell’oggi e ci permettiamo quindi un breve ma significativo richiamo alla figura umana accasciata a terra, già esposta in occasione del festival di sociologia “Senso e direzioni di senso”  di Narni. Migrante singolo , in quella occasione, ma molti di più quelli morti e dispersi in mare a cui le cifre impresse sull’opera esposta fanno riferimento.

opera mirna manni

Un vero e proprio ossimoro comunicativo è realizzato nell’opera che Giorgio Crisafi ha selezionato, all’interno della sua vasta produzione, per l’esposizione napoletana. In un percorso di lettura dell’opera dall’andamento circolare, intenderei partire dall’aspetto materico dell’opera, per poi arrivare al titolo attribuitole dall’artista e chiudere quindi il cerchio dedicando attenzione ai particolari plastici della scultura. Partendo come detto dell’aspetto materico e cromatico in particolare non possiamo non rimarcare la scelta del bianco, un non – colore dagli effetti rilassanti su chi lo guarda e culturalmente collegato al tema della purezza. Il materiale ceramico è stato poi impreziosito dalla lavorazione a lustro che dona all’opera pregevoli riflessi metallici, grazie ad una tecnica ormai secolare. A questi elementi di pace e di preziosità fa da contraltare un titolo di inaudita violenza: Bambino relitto. Il termine bambino è infatti affiancato ad un attributo solitamente riferito a barche o a navi, in un percorso semantico che quasi disumanizza l’essere umano per ridurlo ad un  oggetto. A parziale risarcimento dello choc comunicativo di cui abbiamo appena parlato, l’immagine presentata evita i toni esageratamente drammatici che  avremmo potuto aspettarci per adottare un’immagine in realtà quasi pacifica, in cui il volto del bambino sembra avvolto in una proiezione verticale dell’onda che quasi funge da cuscino. Il sommarsi degli elementi descritti finora riesce quindi a trasmettere il concetto con un equilibrio di toni non facile da raggiungere nel trattare un tema di tale drammaticità.

opera giorgio crisafi

Un’immagine a prima vista più rassicurante è rappresentata dall’opera che per quest’occasione ha realizzato Tonina Cecchetti: una figura femminile pronta a dar alla luce una nuova vita, un abito leggero che copre le forme riconoscibilissime e inequivocabili della gravidanza. I codici simbolici utilizzati coinvolgono anche il colore utilizzato, il bianco della terraglia lasciato privo di interventi cromatici. La maternità  compare pure qui ma, come visto in altre sue realizzazioni, non manca di trasmettere una vena di inquietudine che coglie chi si trova di fronte alle sue opere. In questo caso in particolare la figura è priva di volto e di braccia che diano sostanza umana a questa crisalide. Qui, come altrove nelle sue realizzazioni, la figura umana appare quasi una spoglia, un’immagine in potenza che non ha poi un corrispettivo nella realtà. Se applicato al Mediterraneo, il concetto si trasforma in un grido allarmato, nella denuncia di una potenzialità inespressa e non realizzata, una tragedia tanto più grande se consideriamo i millenni di floride civiltà che su queste acque si sono affacciate.

tonina cecchetti ok

Ad accentuare ulteriormente l’immagine contraddittoria, il vero e proprio ossimoro tra le aspettative e la loro mancata realizzazione, vanno considerati pure i materiali utilizzati. Ci riferiamo in particolare al marmo utilizzato per la base e alle applicazioni in oro zecchino, materiali storicamente tra i più pregevoli e pregiati. capovolgendo la metafora biblica del gigante dai piedi d’argilla, ci troviamo qui di fronte ad una base preziosa che sorregge un simulacro purtroppo vuoto, un’opportunità mancata di cui dovremo, chissà, forse rendere conto.

A dare un volto alla figura umana realizzata da Tonina Cecchetti sembra contribuire la scultura di Antonio Taschini. Nella sua realizzazione, infatti, l’uomo è rappresentato dalla parte del suo corpo più pregna di significati: il viso. Anche qui, al referente oggettivo scelto dall’artista si sovrappongono una pluralità di messaggi. Se nell’opera di Tonina Cecchetti il volto è un tratto fisiognomico significativamente assente, in quella di Taschini è questo stesso invece a raccogliere le tracce e i segni di un lungo vissuto. Proseguendo una ricerca che ha fatto del corpo umano un palinsesto di codici e alfabeti al di là del tempo e capaci di raccontare le storie vissute da ciascun individuo, i suoi volti sono ora una summa della storia individuale e collettiva allo stesso tempo. In uno dei ribaltamenti, degli anacronismi, oseremmo dire, tipici del suo codice espressivo, le tracce riportate sul volto non sono però qualcosa di arcaico ma, al contrario, dei codici informatizzati che rimandano quasi a un futuro distopico in cui l’Uomo, ciascun uomo, è parte di un ingranaggio superiore. Eccoci quindi di fronte ad un ribaltamento della storia in cui i segni lasciati sul volto non sono tanto quelli di un passato più o meno recente ma quelli che, temiamo, potranno esserci impressi in un futuro non sappiamo dire quanto lontano. L’idea di oppressione e di vincoli esterni è poi rafforzata anche dalla presenza di una gabbia metallica che, struttura portante della scultura, finisce con l’assumere significato essa stessa.

antonio taschini

Da eventi di storia collettiva passiamo poi ai sentimenti personali, dalla macrostoria delle collettività alla microstoria di ciascuno di noi, ai minuti ricordi e ai nostri vissuti. Come ogni ricordo che vada ricostruito, allo stesso modo i trabucchi presenti nell’infanzia di Evandro Gabrieli appaiono come una costruzione in un equilibrio all’apparenza precario in cui ogni elemento è stato recuperato dal rischio dell’oblio. Le strutture portanti della scultura sono così un intrico di linee spezzate che inquadrano l’immagine decostruita della postazione da pesca e che sostengono e inglobano allo stesso tempo l’inserto in ceramica. L’oggetto scultoreo e lo sfondo, l’ambiente naturale in cui il trabucco si trova si fanno tutt’uno nelle tonalità dell’azzurro, in quella cromia e in quell’elemento liquido che ricorrono spesso nelle creazioni di Gabrieli. Struttura da pesca forse ripresa da prototipi importati dai fenici,  il trabucco è al tempo stesso una prova della permeabilità fisica e culturale dell’elemento marino nel corso del tempo e strumento con cui l’uomo tende delle trappole al fine di procurarsi cibo. Ecco quindi che alla dimensione individuale e quasi idilliaca del ricordo personale si somma la pensosa riflessione sulla natura ancipite del Mediterraneo, miraggio di libertà e di un futuro migliore per intere popolazioni e, per sua stessa natura e per la chiusura culturale dei Paesi che su questo mare si affacciano, il rischio di rivelarsi una vera e propria insidia.

evandro gabrieli ok

Un’esperienza altrettanto individuale sta inaspettatamente alle spalle di un’altra delle opere esposte in mostra, l’Amuleto di Sabine Pagliarulo. Inaspettatamente, dicevamo, perché l’impressione di trovarci di fronte ad un monile di provenienza africana è in realtà giusto. Abbinato a maschere etniche o, come nell’allestimento pensato per il museo di Villa Floridiana, presentato in maniera isolata, l’oggetto dichiara immediatamente il rimando ad una dimensione primitiva, nel senso alto del termine, se non addirittura primordiale, primigenia, collegato all’origine del tutto. Un’impressione, questa, rinforzata pure dalla presenza di elementi raccolti nell’ambiente, richiamo ad uno stato di natura che precede quello di cultura in cui siamo ormai immersi, condannati, oseremmo dire.  Concetti ribaditi dalla presenza, tra i vaghi della collana, di una piccola scultura della serie Pulse con cui Pagliarulo riflette sul tema  della generatività, aspetto trattato più volte dall’artista. Un’analisi di tipo psicoanalitico potrebbe procedere oltre rimarcando, nelle parole stesse utilizzate dall’artista per presentare la sua opera, l’insistenza sul genere femminile della parola mare nel francese, lingua madre dell’artista. Questa femminilità del mare, concetto andato poi perso dell’italiano usato come lingua d’adozione, finisce quindi col concedere al mare di svolgere il ruolo di madre, madre di popoli in particolare. Ed ecco così che il viaggio sembra una nuova nascita, un nuovo passaggio nell’elemento liquido, un percorso per il quale ci muniamo di amuleti che ci preservino dalla cattiva sorte.

sabine pagliarulo

Il tema del viaggio, già trattato nell’opera di Mirna Manni e di Giorgio Crisafi, torna così ad essere qui presente. E quasi a chiudere il cerchio di questo percorso, troviamo l’opera di Carla Francucci. Sottili sfoglie di materiale ceramico accostate le une alle altre presentano uno studiato alternarsi di toni chiari e forme ricurve: uno studio all’apparenza esclusivamente formale è in realtà uno specchio quanto mai realistico del vissuto individuale e della storia recente di persone che, in prima persona, hanno compiuto il percorso mediterraneo evocato da più parti. E come un evento di tale portata lascia segni indelebili nella memoria e nell’animo di chi tale percorso l’ha vissuto personalmente, allo stesso modo la ceramica, materiale solo all’apparenza inerme, si fa portatrice di un’impronta, di una traccia fisica che migranti conosciuti dall’artista hanno voluto imprimere sull’argilla. Strette l’una a fianco alle altre, le lastre in gres che compongono l’opera Impronte assumono tanto più valore in quanto sommano, all’individualità del percorso di ciascuno, la dimensione collettiva dell’essere comunità; nel percorso diverso, ma con un’unica meta, del condividere con noi la terra ormai raggiunta. Non manca, infine, una dimensione di pudico rispetto del vissuto in queste lastre, in cui l’impronta è perlopiù nascosta alla vista, quasi a denunciare l’incomunicabilità di sofferenze, aspirazioni e vissuti individuali difficilmente comunicabili a parole.

carla francucci

Al limite della rielaborazione informale, l’opera Strati#grafie di Angela Palmarelli ribadisce il tema della storia riportandolo però a dimensioni sovraindividuali. Come denunciato infatti dal titolo dell’opera, gli elementi che compongono la sua scultura rimandano chiaramente non solo ad una dimensione geologica, al lento sedimentarsi e stratificarsi di materiali, realizzatosi in decine se non centinaia di migliaia di anni, ma accennano anche a strati in bilico, scelti per rispecchiare la fragilità della storia umana, fenomeno destinato a riproporsi. Volutamente significativo l’accostamento e l’opposizione all’opera di Carla Francucci. Il pudico tacere, la reticenza a parlare espressi dall’opera Impronte vengono qui ribaltati: la scomposizione degli elementi che compongono il titolo dell’opera di Angela Palmarelli ne evidenzia infatti le componenti semantiche e si insiste quindi sulla natura di grafia, ovvero di scrittura, di ogni strato geologico. Sono storie che trascendono il limitato orizzonte di vita del singolo individuo e dell’intera umanità, piccola parentesi caduca se rapportata agli ampi orizzonti cronologici del pianeta Terra. Eccoci quindi tornati alla macrostoria o, meglio, ad una dimensione che esula quasi il concetto stesso di storia. Se è infatti noto come le scansioni interne alla storia dell’umanità e, in particolare, il passaggio tra preistoria e storia sia convenzionalmente fissato con il momento della comparsa della scrittura umana, l’attribuire il ruolo di scrivere ad elementi fisici sembra quasi procedere nella direzione di un antiumanesimo in cui la storia umana viene decisamente ridimensionata.

angela palmarelli

Giunti quasi al temine di questo testo, breve e forzatamente sommario, non possiamo che plaudire al contributo di questi artisti volto ad avverare l’omen nascosto nel nome della città di Napoli, ovvero questo suo essere una città nuova e allo stesso tempo figlia del più antico insediamento greco in Italia, una città che sulle radici profonde basa, sicura, la sua storia ma con gli occhi rivolti avanti, verso il nuovo presagito dal suo nome.

Un’ultima riflessione perché una questione potrebbe in realtà rimanere sospesa, in particolare l’inserimento di queste opere contemporanee all’interno di una collezione storicizzata. Il tema non è nuovo nel dibattito museografico recente e al riguardo possiamo soltanto ricordare l’incontro, tenutosi recentemente a Roma, in cui si dibatteva se questo inserimento sia più una questione di moda o una vera e propria esigenza estetica. Nell’intento di aggiungere il nostro contributo a quanto sostenuto in quella sede,  ci permettiamo di partire da un punto apparentemente più lontano ma, crediamo, ugualmente importante. Ci riferiamo alle parole che Alessandro Solbiati ha utilizzato per commentare il felice accostamento di Sinopia, una sua opera presentata in prima esecuzione assoluta al teatro Manzoni di Bologna, con la settima sinfonia di Beethoven. Sollecitato dal giornalista, il compositore ha rimarcato la necessità che le stesse orecchie che ascoltano Beethoven devono approcciare le composizioni contemporanee. Volendo piegare il ragionamento del compositore verso la nostra questione potremmo semplicemente sostituire occhi ad orecchie e avremmo trovato una giustificazione già sufficiente. L’assunto del compositore non si è fermato qua ed è arrivato a sostenere la necessità, da noi pienamente condivisa, di considerare moderne le opere storiche e guardare con l’attenzione dedicata alle opere ormai classiche le realizzazioni contemporanee. E con questo intento che abbiamo voluto presentare opere contemporanee all’interno questo Museo nei confronti del quale ribadiamo, ancora una volta, il nostro sentito ringraziamento.

Testo a cura di Domenico Iaracà

 


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