FRAGILITA’ E RINASCITE A Saronno la ceramica traccia possibili percorsi di resilienza

La terza edizione della Festa della ceramica di Saronno, incentrata sulla parola FRAGILE, ci offre l’opportunità di portare avanti una riflessione sulla fragilità e sulle diverse possibili forme di rinascita, con uno sguardo focalizzato sulla ceramica contemporanea. Nella prestigiosa cornice del Museo Gianetti alcune opere seguono un percorso tracciato da chi scrive e dalla conservatrice del museo, Mara De Fanti. Nelle righe che seguono, quindi, un racconto per parole ed immagini del nostro esser fragile, come individui e come collettività, e di alcune delle possibilità di superare questa condizione.

Fra le diverse possibili forme di fragilità di cui potremmo parlare, nello sviluppare il tema suggerito per questa manifestazione, abbiamo deciso di partire da quella del patrimonio artistico. E lo facciamo dalla ricerca di un artista umbro, eugubino in particolare, Paolo Biagioli. Il suo percorso parte dalla scultura ma, da alcuni anni, le sue opere tendono quasi a smaterializzarsi, concentrandosi sulle minime gradazioni della pellicola della grande tradizione pittorica, umbra ma non solo. Ecco quindi comparire lastre che rimandano al riconoscibilissimo blu dei cieli giotteschi o, come nelle opere presentate in questa occasione, i fondi oro delle tavole medievali, fragili nonostante il loro bagliore. Opere realizzate con l’utilizzo di scorie metalliche che, ossidandosi, presentano colori via via differenti in modi non prevedibili dall’artista, adeguandosi al trascorrere del tempo e rispondendo alla mutate condizioni senza quindi subirle in maniera passiva.

PAOLO BIAGIOLI, Tutto oro, 2022 (due lastre di quattro)

In un museo incentrato prevalentemente su preziose porcellane, nucleo preponderante all’interno degli interessi di Giuseppe Gianetti, il discorso non poteva però non rivolgersi anche a questo materiale e alla secolare tradizione che lo ha visto protagonista, dapprima in Oriente e poi qui in Europa, in anni più vicini a noi. Tocca quindi al celadon di Lucy Morrow cercare di ricostruire tradizioni in frammenti nel suo Ways to fit, ripetuti tentativi di ricomporre forme appositamente concepite come incomplete.

LUCY MORROW, Ways to fit, 2021 (particolare).

Così Pol Polloniato, da sempre attento alla sorte di manifatture venete del Settecento, quella degli Antonibon in particolare, sviluppa i suoi ormai celebri Pieni a rendere, stampi storici riempiti da scarti di produzione, un’opera già presente al sessantesimo concorso di Faenza ed ora esposta al MIC. Per questa esposizione abbiamo deciso però di presentare la tappa intermedia di questo percorso di ricerca e la sua prima sperimentazione in porcellana, un’installazione in cui il focus si sposta sulla manifattura belga della Royal Boch, oggetto di studio durante il soggiorno dell’artista a Bruxelles. Da stampi ormai in disuso della manifattura e destinati al macero, Pol costruisce degli ibridi che combinano le forme tradizionali in nuovi assemblaggi dalle forme articolate, opere a metà tra zoomorfe e fitomorfe in alcuni casi. Troviamo così citazioni delle minster jug inglesi di metà ‘800 – l’esemplare al V&A Museum di Londra è datato intorno al 1845 – o del grande vase au apôtres di Jean -Claude Zigler, dello stesso arco di anni, mescolati ad altri stilemi chiaramente decò e ad oggetti futuristi interpretati a suo tempo come parabole. Le forme antiche sono ormai intaccate da elementi e superfetazioni di epoche diverse, in forme meticce che hanno perso la loro identità per assumerne, al tempo stesso, una nuova.

POL PAOLO POLLONIATO, Made in Belgium, 2014 (particolare della serie)
FRAGILE Particolare dell’allestimento

Tema, se non identico, decisamente molto simile è trattato da Helene Kirchmair. In un suo gruppo di opere, ad essere citata o utilizzata non è la porcellana in particolare ma tutta la ceramica, quella d’uso saremmo tentati di dire. Sono i manici che, sporgendo dal corpo del vaso, rischiano più spesso di rompersi, ma che in Velvet hug diventano elementi costitutivi di una nuova composizione. La disposizione ritmata di questi frammenti finisce infatti per comporre una texture che copre interamente il pannello a parete. Nonostante un nome diverso, è di nuovo l’attenzione alle superfici coperte da una fitta texture quella che ritroviamo in Rocket science blue e Rocket science white dove oggetti che sembrano rimandare a delle grandi anse sono supporto – quasi pretesto- per una tessitura che li copre interamente.

HELENE KIRHCMAIR, Velvet hug, 2020
HELENE KIRHCMAIR, Velvet hug, 2020; Rocket scienze blue e Rocket science white, 2018.

La fragilità dell’opera d’arte in generale, e di quelle in ceramica in particolare, non si limitano agli aspetti materiali del supporto ma anche ai limiti della loro fruizione pubblica. Ecco quindi che, citando l’intervento di Michele Schubert presso questo museo in occasione della presentazione della Mostra Il Museo Gianetti e i Subert. Un legame riscoperto, ci permettiamo di parafrasare una sua affermazione. Se Subert vedeva nella catena composta da antiquario, collezionista e fondazioni museali un circolo virtuoso, stessa cosa crediamo possa dirsi quando ad essere coinvolti sono artisti, collezionisti e, di nuovo, collezioni museali. Crediamo infatti che il museo non sia solo preposto a custodire e studiare opere della propria collezione ma, così auspichiamo, anche ad integrare periodicamente le proprie collezioni con opere che dialoghino con queste, facendo risuonare le opere esposte, come diremmo utilizzando il lessico della prassi musicale. Approfittando di un’opportunità offerta in maniera lungimirante dalla direzione, esponiamo quindi in questa sede non solo Made in Belgium, non più visto dopo il concorso di Castellamonte del 2014, ma anche un’opera che risale e ben più indietro. Il piatto di porcellana serigrafata di Giulio Busti data infatti al 1985 e, nel catalogo della mostra Sotto il segno dell’ansa curata da Gian Carlo Bojani, figurava come facente parte della collezione Mozzali Menegozzo già nel 1991. In sintesi, le fragilità delle opere, anche pregevoli, possono consistere pure nel loro non essere fruite se non grazie all’intervento lungimirante di Musei e dei loro direttori che permettono loro di rinascere.

GIULIO BUSTI, Impronta serigrafica, 1995

In un allestimento in cui lo sguardo è invitato a spostarsi dal una parete all’altra della sala, a far da pendant al piatto di Busti troviamo quello di Marrocco. Docente di scultura ceramica all’Accademia di belle arti di Perugia il primo e di pittura, a Brera, il secondo, entrambi gli artisti sono presenti con opere a parete. Nell’opera di Marrocco è una metafora della fragilità a salire sul palco, uno strato di smalti volutamente fessurato che attrae la nostra attenzione, al centro dell’opera. Attorno, due semplici gesti di pennello in giallo e blu, segnano quasi un abbraccio, un voler sottolineare e allo stesso tempo proteggere la fragilità centrale. Il tutto, quindi, con una scelta cromatica squillante a fare da sfondo e a rendere ancora più evidente il contrasto nell’opera.

FRANCO MARROCCO, Piatto, 1994.

Spostando in poi lo sguardo all’estremità opposta della sala è il mondo affollato descrittoci da Paolo Porelli che torna sul tema delle nuove identità mutanti. Abbiamo visto l’opera di Pol rivolgersi alle tradizioni ceramiche, alla creazione dell’uomo. Ma lo stesso può dirsi di ciascuno di noi. Quanto siamo cambiati di anno in anno, quanto cambieremo ancora! Porelli rappresenta iconicamente questa trasformazione in una serie di sculture in porcellana dal titolo Golden Age. Se questo titolo può fare pensare ai più ad una passata età dell’oro, le sculture invece ci trasportano in un mondo futuro, non sappiamo quanto lontano da noi, in cui tutti noi porteremo tracce evidenti della nostra evoluzione. Anche qui, come nelle creazioni di Polloniato, protomi e appendici alterano la struttura originaria dei nostri corpi per vite nuove che, chissà, si affacciano in tempi futuri. Ma la resilienza e la capacità umana di adattarsi alle situazioni più diverse è una possibile risposta alle difficoltà che ci circondano, fino a trasformare noi tutti in qualcosa di nuovo, di inaspettato, una novità che sembra trasparire anche esternamente in queste figure ibride di Porelli realizzate in occasione di una residenza a Jingdezhen, in Cina.

In un voluto alternarsi di toni, è quello ironico, se non addirittura grottesco, quello che domina nella trattazione della fragilità di tutti noi, del nostro corpo. Quasi pendant della figurina grottesca prodotta dalla manifattura di Doccia nel 1745 e appartenete alle collezioni del Museo, figurine talvolta anonime sono state prodotte a lungo, fino agli anni 50 del Novecento se non oltre, opere che si inseriscono indubbiamente all’interno di quella ricca produzione che ha avuto molto successo non solo in Italia ma anche all’estero, al punto da ottenere una mostra a New York dedicata a quelle che che vengono definite “Humourous ceramics”. Nella trattazione della fragilità del corpo, Andrea Salvatori gioca con la produzione di figurine in porcellana su basi di rocaille così in voga a Nymphenburg e ampiamente attestate nelle collezioni del Museo. Spiazzante per il suo anacronismo il soggetto ritratto, un Batman caduto e forse morente, satira di una produzione ceramica di prestigio che si inserisce appieno nella ricerca dell’artista. Che siamo opere della produzione novecentesca a cui Salvatori aggiunge tappi o manici, che siano invece leziose figurine schiacciate da massi o, ancora, oggetti di design decorati con le texture o i riconoscibili motivi della ceramica faentina contemporanea, l’intento dissacratorio rimane invariato.

ANDREA SALVATORI, Senza titolo, (Batman morto su rocaille) 2019

In un quadro geopolitico complesso e polarizzato, significativa ci è parsa l’opera World in cui Nicola Boccini sovrappone trame rettilinee – che potrebbero ricordare i confini tra Stati imposti in epoca coloniale – ad una Natura che questi stessi confini li ignora e li travalica. Questa è la riflessione dell’artista presente alla Biennale architettura 2021 e 2023 e selezionato al sessantunesimo e sessantaduesimo concorso di Faenza. Un’opera in cui troviamo unite una perizia tecnica ed innovativa notevoli – la Porcelain veins di sua sperimentazione – ed un messaggio civile riconosciuto, così come in altre sue opere.

In un mondo globalizzato in cui le scelte di un individuo si ripercuotono anche su aree geografiche molto distanti tra di loro, la Natura ed il mondo animale in particolare ci fanno assistere a fenomeni opposti tra di loro: l’estinzione di alcune specie da una parte e la proliferazione incontrastata di altre, in ecosistemi ormai quasi irrimediabilmente alterati. La Natura stessa è però specchio della resilienza e dell’adattabilità della forme viventi, come per esempio quella degli insetti, i primi a ripopolare zone colpite da incendi. Quasi ad omaggio alla loro tenacia, in mostra Ants marching #13 di Silvia Granata. Piccoli elementi di porcellana colorata in pasta interagiscono con un guéridon Ottocentesco, rivisitando in chiave contemporanea una lunga tradizione che cita, tra gli altri, il grande guéridon con piano in porcellana di Sèvres, opera di Martin-Eloy Lignereux, ed ora al Museo Correr di Venezia.

NICOLA BOCCINI, Word, 2009, (alla parete) e SILVIA GRANATA, Ants marching #13, 2021
SILVIA GRANATA, Ants marching #13, 2021, particolare.

Ogni nostro gesto, dal più piccolo al più complesso, può avere ricadute su quanto di circonda e lo sa bene Vincenzo Formisano che, dalla città di Firenze, ha condotto una residenza d’artista all’Auberge de France à Rhodes, in Grecia. Entrambe le località, seppur in maniera diversa, sono meta di un turismo internazionale che rischia di alterarne l’equilibrio. Da qui la riflessione di cosa possa essere il bagaglio di ricordi, il “tesoro” che ci portiamo dietro di ritorno da questi viaggi, Ed è appunto Thesauros il titolo della performance di arte relazionale che viene riproposta in occasione della vernice della mostra e poi in video, al link http://www.facebook.com/offic.lab/videos/375129711035355, nel periodo successivo.
L’opera frutto della perfomance gioca poi sul valore attribuito alla porcellana, oro bianco per molte case regnanti che al prestigio della lavorazione di questo materiale hanno storicamente legato la fondazione di manifatture che portassero alto il loro nome.

VINCENZO FORMISANO, Thesauros, 2021

Ed intorno alla porcellana si sono stretti anche gli scambi tra artisti di luoghi diversi, scambi agevolati da quei simposi internazionali periodicamente organizzati in Italia e in altri Paesi. Quello tenutosi a Nove nel 1974 è ormai lontano nel tempo, ma ne restano tracce nelle piccole o grandi opere scambiate in quell’occasione: in mostra il dono a firma di Kurt e Gerda Spurey fatto a Domenico Poloniato, tra gli organizzatori dell’evento. E nella produzione dell’artista novese compaiono quindi una rara opera in porcellana, prova tangibile della volontà di mettersi in gioco ed aprirsi al confronto con tecniche per lui inedite, di fianco ad un pannello di Emiko Mizutani, anche lei alla prova con la porcellana in cui gli Spurey eccellevano.


KURT e GERDA SPUREY, Porzellanform, Nove,1974.
EMIKO MIZUTANI, Pannello, Nove, 1974.
DOMENICO POLONIATO, Sperimentazione in porcellana, Nove 1974, (opera non in mostra).

Un quadro, quello presentato finora, in cui compaiono molte attestazione di fragilità, da quella individuale a quella collettiva, ambientale e addirittura globale; ma per ciascuna di queste manifestazioni compaiono indizi di una ripresa, di una rinascita e della volontà o possibilità di affrontare diversamente le fragilità che ci contraddistinguono, come individui o come società. E se un fragile bagliore dorato aveva aperto la mostra, a questo stesso ci rivolgiamo di nuovo alla fine del percorso.

Testo a cura di Domenico Iaracà.


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