Giorgio Di Palma intervistato da Sonia Rezzonico: collaboratrice di Gabriella Sacchi, ci racconta di come per lui: ” la ceramica sia una macchina del tempo e di quanto non sarà facile sbarazzarsi di questi cocci”…
La sua prossima mostra personale: ” Tenga il resto”, si terrà presso lo Spazio Nibe a Milano dal 21 novembre al 22 dicembre: leggere attentamente le istruzioni prima della visita.
Arrivi da Grottaglie, terra famosa per la ceramica che porta con se’ una
tradizione secolare. Inoltre tuo padre fa il ceramista e ha una bottega.
Eppure alla ceramica ci sei arrivato solo a 29 anni. Si potrebbe dire che hai
fatto un giro ampio per arrivare nuovamente all’origine. Come mai un
ragazzo come te ha scelto la ceramica? Sembra una scelta contro corrente.
Come la motivi?
Non considero il mio percorso differente rispetto a quello di molti della mia generazione. Da adolescente, forse per ribellione o forse solo per necessità, sono scappato da quello che Grottaglie (provincia di Taranto) offriva: ILVA oppure militare. Un’alternativa sarebbe potuta essere la ceramica ma questo avrebbe significato avere mio padre come professore all’Istituto d’arte. Non mi andava di essere considerato un raccomandato. Così ho fatto tutt’altro fino a capire che stavo vivendo mille esperienze al massimo, come in una perenne gita, perché inconsciamente convinto che un giorno sarei tornato a Grottaglie. Una volta a casa ho preso quello che trent’anni di esperienza mi avevano insegnato e l’ho mescolato con quello che secoli di storia mi offrivano a costo zero. Il risultato è quello che vedi, ceramiche che oggi mi permettono di restare e di fuggire ogni volta che desidero.
Non hai fatto nessuna scuola d’arte e, come racconti, hai preferito
frequentare lo scientifico perché papà insegnava all’artistico. Però disegni,
hai con te sempre uno sketch-book. Com’ è nata la passione per il disegno?
E come mai dal disegno sei passato all’argilla?
All’inizio disegnavo qualche volta di notte a Budapest, mentre di giorno lavoravo come tecnico informatico. Più che una passione è stata una necessità. Avevo un bisogno di comunicare, soprattutto di raccontare a chi mi conosceva quello che facevo. Sono così nati parallelamente il disegno e la scrittura. Creai un blog e cominciai a postare testi e disegni. Quel blog, nell’era pre-facebook, diventò presto un riferimento per gli italiani che andavano in vacanza a Budapest e per quanti in Ungheria ci vivevano. Quotidianamente centinaia di persone leggevano e commentavano testi sgrammaticati e disegni imperfetti. Capii che alla gente quello che interessava veramente era il modo con cui raccontavo le mie storie, non cercava la perfezione dello stile. Questa mia voglia di raccontare storie è rimasta intatta e l’ho trasportata anche nella ceramica. Ma proprio perché non uso solo la ceramica, e soprattutto non lo faccio bene, non mi piace definirmi ceramista.
La tua famiglia come ha reagito alla tua scelta? Tuo padre ha avuto un
ruolo nella tua formazione di ceramista e se sì quale?
Quei pochi fan che conto sono tutti famigliari. Mi hanno sempre supportato in ogni modo. Sono loro i primi a condividere i miei post e da quando mia madre si è creata un account su facebook ho anche ampliato le mie vendite tra le sue amiche del burraco. Mio padre è stato quel professore che non ho avuto venticinque anni fa. Ha avuto il merito di insegnarmi tutto riuscendo a lasciarmi una libertà stilistica incredibile.
Almeno metà della tua produzione è legata a oggetti d’uso che sono
entrati prepotentemente nel mondo dell’arte da più di un secolo, almeno a
partire dalla produzione di Marcel Duchamp. Non solo: i tuoi oggetti sono
spesso elementi che nella vita reale hanno una funzionalità e che
appartengono quasi tutti alla produzione industriale. Tuttavia tu, a
differenza di un designer, non dai una nuova veste a questi oggetti ma li
usi per evidenziare la loro valenza estetica e il loro ruolo antropologico. Il
tuo lavoro è solo descrittivo e documentativo o vuole, in qualche modo,
mettere in crisi l’esistente?
Molte delle cose di cui oggi ci circondiamo non ci servono, le utilizziamo pochissimo e poi le abbandoniamo, non perché non funzionano ma perché non le usiamo più. A volte dimentichiamo pure di averle. Per questo a me fa sorridere il concetto di funzionalità. La funzionalità oggi risponde a criteri come moda e stile.
Io non voglio essere quello, anche se temo di esserlo.
Con l’attività del tuo sito e del tuo blog, rendi partecipe del tuo lavoro un
largo pubblico. Commenti e rendi vive tutte le residenze d’artista che hai
fatto e aggiorni quotidianamente la tua attività. In particolare, per quanto
riguarda le residenze, rilevi delle diversità tra il modo di organizzarle in
Italia e all’estero? In che modo hanno influito sul tuo stile di lavoro?
Le residenze non hanno mai influenzato il mio stile di lavoro, perché a me interessa il confronto non tanto con materiali, forni e smalti nuovi quanto con gente, posti e cibi diversi. I contatti umani con artisti e luoghi diversi hanno influenzato il mio stile di vita più che il mio stile di lavoro.
Descrivendo il tuo lavoro dici: “Faccio ceramiche di cui non c’era bisogno”
Poi aggiungi: “Lo faccio con colori lucidi e brillanti”. C’è una relazione tra
le preferenze che esprimi a livello coloristico e la storia della ceramica
italiana e dei suoi smalti brillanti?
Non ho una grande conoscenza della storia della ceramica italiana. Conosco bene la ceramica contemporanea italiana, ma poco quella storica.
La tua produzione mi ha ricordato tantissimo quella del pittore e scultore
svedese Claes Oldenburg, seppur le sue opere siano monumentali mentre
le tue hanno una misura reale. Non solo: mi sembra che, come lui, tu non
sia tanto interessato a contrapporre solo l’arte alta al kitsch, ma, nel suo
caso come nel tuo, siamo di fronte ad un dialogo tra arti visive ed estetica
urbana. Ti senti di citare qualche artista che ispira particolarmente il tuo
lavoro?
Non avendo mai studiato arte le mie influenze provengono da “artisti” che ho avuto modo di conoscere durante il mio percorso. Quando ancora non facevo ceramica aiutai un mio amico a costruire uno studio di serigrafia dove invitata artisti a realizzare opere in serie limitata e dipingere muri in giro per Grottaglie. Non mi accorgevo di nulla ma conobbi persone che facevano arte fuori dai circuiti tradizionali. Quello studio e molti di alcuni di quegli artisti hanno inizialmente influenzato il mio approccio e anche il mio stile. Solo dopo anni ho scoperto chi fossero Claes Oldenburg, Bertozzi e Casoni e tanti altri a cui spesso mi avvicinano.
Il tuo lavoro, così fresco, rinnova oggettivamente una tradizione ceramica
secolare che, comodamente seduta, sembra non avere nessuna intenzione
di volersi rinnovare soprattutto in Italia. Qual è la relazione tra
innovazione e tradizione all’interno della tua opera?
Io sono fortemente legato alla tradizione. Mi piace presentarmi come Giorgio Terracotta, ovvero come quello dell’impasto meno nobile della ceramica. Ma Grottaglie è Terracotta, lo è sempre stata.
Provare a fare arte con un materiale del genere è la mia più grande innovazione. Portarla oggi nei Musei di Ceramica Contemporanea dove regnano porcellane e gres è difficile, ma importantissimo. E’ voler rivendicare un’appartenenza, significa mantenere viva una tradizione centenaria.
Ecco perché penso alla ceramica come una macchina del tempo. Perché ogni pezzo si porta dietro storie vecchie che rimarranno eterne. Non ci potremmo sbarazzare facilmente di questi cocci.
Intervista di Sonia Rezzonico collaboratrice di Gabriella Sacchi per Spazio NIBE