Nicola Boccini e il suo percorso di ricerca ceramica.
Nel catalogo della mostra sulla scultura ceramica tenutasi a Bologna nel 1989, i curatori dell’evento Pier Giovanni Castagnoli, Fabrizio D’Amico e Flaminio Gualdoni esprimevano il loro parere sul panorama artistico italiano del secolo appena trascorso. Il giudizio sull’area umbra non era dei più generosi: fatta eccezione per quanto avveniva “par miracle nella doppia esperienza Cagli – Leoncillo alla fornace Rometti di Umbertide” si lamentava come questo non fosse che un “episodio isolato di un’area, Gualdo Tadino e Deruta in testa, intristita dalle peggiori estenuazioni del mestiere più retrivo”. Non intendiamo qui confutare la ricostruzione di un ampio periodo storico come quello preso in esame ma, trascorsi poco più di venticinque anni dalla pubblicazione del catalogo, presentare una ricera artistica che proprio da Deruta prende le mosse e che, almeno per il presente, smentisce quanto lamentato per il passato: stiamo parlando di Nicola Boccini e la sua ricerca ceramica. Nelle poche righe che seguono cercheremo di sintetizzare un percorso di ricerca ricco e sfaccettato attraverso la presentazione di alcuni momenti e snodi centrali della sua ancor breve ma intensa produzione.
Forti di una formazione europea e ormai riconosciute a livello internazionale, la sua ricerca e la conseguente produzione ceramica dimostrano un’apertura di orizzonti un tempo inaspettata. Apertura e confronto con il panorama internazionale che non escludono però una perfetta padronanza di tecniche antiche, profondamente interiorizzate prima di essere rivisitate. Essendo originario di Deruta, città si antica tradizione ceramica, Nicola ha necessariamente dovuto confrontarsi con secoli di predominio artistico e una tradizione rinascimentale troppo a lungo cristallizzata nei canoni dello storicismo ottocentesco già lamentato nel giudizio citato. Lo stesso confronto con la tradizione ha, in Boccini, un aspetto tutto suo e la produzione di oggetti lustrati ne è esempio tangibile. Tra i diversi possibili aspetti a cui rifarsi, la sua produzione si è infatti rivolta ad un ambito ristretto, quello delle cc.dd. suppellettili borchiate. La produzione cinquecentesca aveva infatti sperimentato come superfici mosse concedessero alla luce naturale che colpisce l’oggetto di produrre un gioco di riflessi ben più articolato che non nel casi di superfici piane. È per questo che piatti da parata, vasi ed altre forme sono mosse da escrescenze di foggia diversa, fiori, frutti o foglie stilizzate o ancora, e da qui il nome, semplici borchie. Nella rivisitazione di queste forme Nicola capovolge completamente il processo: non crea sporgenze ma, all’opposto, incavi sulla superficie dei piatti. Prodotti da oggetti che colpiscono casualmente la superficie ancora molle del piatto, questi incavi sono poi dipinti con vernici differenti così da testare la possibilità di iridescenze via via più luminose. Quella che era poi decorazione accessoria, destinata a circondare il tema illustrato centrale, diventa talvolta motivo unico di lavorazione del piatto, travalicando il limiti della tesa e invadere lo stesso cavetto. Nel caso la partizione tradizionale permanga e il cavetto riporti un tema diverso, questo abbandona il figurativo delle narrazioni istoriate per dare spazio ad astratti incroci di linee di fili metallici fusi col piatto stesso al momento della cottura. Il lavoro di scavo delle superfici, di logoramento, potremmo quasi dire, in alcuni casi isolati è talmente avanzato da intaccare la forma stessa del piatto che, nel caso di Formazione 33, si riduce ad una superficie che alterna vuoti e pieni in un crescente di luna policromo.
L’imponderabile e casuale distribuzione degli incavi della superficie lustrata si confronta poi, nella sua produzione, con le insondabili ma inamovibili tracce grafiche dettate dalle onde sonore. Avanzatissime ricerche scientifiche fanno si che si possa individuare la corrisponenza tra un suono, una parola specifica e la posizione che particelle mobili assumono su una superficie piana sottoposta a tali sollecitazioni sonore. E se le particelle mobili sono pigmenti per ceramica, una volta cotti questi cristallizzano quanto per noi è imperscrutabile, ogni volta che sentiamo una parola, trasformando la sostanza sonora in mappe percepibili con la vista.
Tradizione e innovazione si incontrano e si confrontano pure nella lavorazione della maiolica. Suo infatti è lo studio che permette di riportare la decorazione tipica della maiolica pure su supporti ben più resistenti e suo, a buon diritto, il nome che ora designa questa tecnica: tecnica Boccini.
Del 2009 poi il progetto pocelain vein. Dopo gli altri materiali tocco ora alla porcellana e alle sue naturali superfici traslucide. La caratteristica naturale del materiale è esaltata grazie agli spessori limitati che permettono di intravedere, nel corpo stesso delle sue opere, il sistema circolatorio di fili di metallo che lo solcano. Siano essi di rame o di ottone, di ferro o di platino, questi individuano un tracciato che attraversa il corpo stesso dei pannelli, ne sono parte integrante e non decorazione sovraimposta. Così come nella produzione da cui siamo partiti in questo breve excursus, anche qui il corpo dell’opera si fa via via sempre più ridotto per dare spazio al suo opposto. Il vuoto, nel primo caso, la luce in quest’ultimo. La luce che sarebbe stata ostacolata dalla presenza di un corpo, qui diviene parte viva dell’opera, se non la stessa componente primaria dell’opera stessa. È una luce che varia a seconda delle frequenze sonore percepite nell’ambiente, presenza viva che le interagisce con quanto ci circonda. Non è un caso quindi che frutti della ricerca su questo tema siano stati accostati a opere di Carlo Bernardini, premio Targetti per le sue ricerche su opere luminose, in occasione della mostra milanese dello scorso anno. Lungi dal voler riportare qui le importanti sedi espositive in cui tali ricerche hanno avuto modo di essere apprezzate, non possiamo allo stesso tempo tacere la Biennale della Ceramica di Taiwan del 2014 e l’importante mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma del 2015. Riconoscimenti importanti a sostegno di una ricerca inesausta che fa sperare in risultati altrettanto stupefacenti.
Piuttosto che chiudere quindi queste poche righe con un bilancio, preferiamo farlo con un augurio e con la promessa di continuare a seguire le evoluzioni di un percorso che si prospetta ricco di sorprese.
Testo di Domenico Iaracà